Report: Dismember @ La Gabbia Music Club – VI

Di Redazione - 5 Dicembre 2005 - 18:28
Report: Dismember @ La Gabbia Music Club – VI

Evento: Dismember + Coram Lethe + Soulpit
Report: Giorgio Vicentini
Foto: Veronica Mariani
Location: La Gabbia Music Club – Bassano del Grappa (VI)

C’è chi suona death metal e chi E’ death metal.
C’è chi suona per mostrarsi e mostrare i propri pezzi, c’è chi li suona per il pubblico.

Sull’onda della personale euforia al pensiero di vedere una delle band che mi ha cresciuto e svezzato negli anni, i Dismember, attendevo con fibrillazione la data organizzata dalla Gabbia Music Club di Bassano del Grappa, già fautrice di una serata swedish death “d’epoca” con gli Entombed (mini riverenza d‘obbligo).

SOULPIT

Giovane band patavina, già nota come cover band di death svedese suonando brani di In Flames, Dark Tranquillity, At The Gates ed Amon Amarth, salgono sul palco vestendo una bella convinzione e pronti a sfoderare un sestetto di brani tra inediti di loro produzione ed omaggi quali “Incarnated Solvent Abuse” dei Carcass, ben suonata ma senza un pizzico di verve vista la mancanza dello scream. Buona prestazione, sound potente ed una compattezza  sintomo di meccanismi collaudati, segnano una prestazione concreta, che lascia sugli scudi il potente singer Enrico Francescato ed il batterista Sebastiano Sartorello a suo agio su tutti i cambi di tempo e soluzioni, anche grazie ai trigger di supporto a tutti i gruppi. Malgrado non adori il loro death svedese di stampo melodic, ho apprezzato la prontezza nell’inserimento di partiture più dure e di cambi di tempo collaudati in una piacevole varietà ritmica complessiva, con qualche classico stacco acustico che fa correttamente parte del pacchetto. Certo, con uno stile così, sarà importantissima la personalità e l’energia usata nel proporlo, perché i pezzi attuali ad un primo ascolto sembrano funzionare, nonostante qualche imprecisione di una delle due chitarre, ma tanti altri gruppi si lanciano in questo settore e farsi notare non è facile. 

CORAM LETHE

Dopo i vari elogi elargiti nei loro confronti da varie fonti di settore, nutrivo una buona curiosità verso i toscani Coram Lethe, sufficientemente  ripagata da una scaletta che ha ovviamente prediletto i brani del recente full lenght The Gates of Oblivion, di cui mi sono accaparrato l’ultima copia disponibile al banchetto. Un sold out che fa ben sperare. Non avendoli mai ascoltati prima d’ora e preparato soltanto dalle parole lette sul web, sono rimasto positivamente colpito dalla durezza del loro death metal, dal sound vario, potente al punto giusto al servizio di brani dalla indubbia varietà strutturale. Band dinamica sia nei brani che sul palco, tecnica esecutiva di livello superiore in bella evidenza, membri sempre in movimento e tanta grinta soprattutto dai due chitarristi e dal cantante Mirco Borghini, sicuramente studiato dal punto di vista delle movenze e nella ricerca del feeling col pubblico.Ottima la prova della new entry al basso Matteo Meucci, meno gradita dal sottoscritto la trovata delle facce sporcate dal trucco nero che non ho capito del tutto. 
I Coram Lethe ci sanno fare, sembrano una band già ben formata sotto l’aspetto musicale e prettamente interpretativo, quindi è un peccato che il pubblico sia calato man mano durante la loro prestazione, accolta con grande entusiasmo da alcuni presenti che conoscevano a memoria i loro testi.  Anche il sottoscritto ha trovato qualche ostacolo nel seguirli fino in fondo, vuoi perché all’oscuro della loro musica, vuoi per l’indubbia completezza e complessità che richiedono qualche attimo in più per essere apprezzati. Forse i presenti hanno disertato progressivamente per queste motivazioni e perché venuti per gli svedesi, che saranno bravi, ma tutt’altro che intricati. 

 DISMEMBER

L’apoteosi personale.
Come anticipato, c’è chi ha il death metal dentro e ne ha inventato una branchia, c’è chi scimmiotta o lo ripropone. I Dismember sono un monumento al genere che propongono e come tali hanno suonato: potenti, anche imprecisi, ma tanto-tanto “easy”, rilassati ma grintosi, divertiti, sicuri, entusiasti, positivi ma non per questo annacquati. Pronti a scherzare con tutti i presenti e tra di loro, autori di qualche mini siparietto con le bottigliette di plastica e con una delle luci blu roteanti appoggiate sul pavimento del palco. Indicativo il comportamento di Persson, la cui chitarra si ammutolisce di colpo e lui continua a suonare come niente fosse, sghignazzando mentre Blomqvist gli fa notare che la sua cassa è muta. Ho visto la band che volevo, racchiusa tutta in quel gesto del simpatico Matti Kärki che simula il riffing heavy che contraddistingue la sua band, personaggio totale per simpatia e padronanza (rivederlo oggi e nelle vecchie foto di dieci anni fa sorridere… come passano gli anni). 

Scaletta più che soddisfacente, che pesca alla grande lungo tutta la carriera, facendo contento anche il tizio che inneggiava di continuo un “pez-zi vec-chi – pez-zi vec-chi” ad ogni sosta: “Trendkiller“, “Pieces“, “Bleed For Me“, “Skin her Alive” e “Soon to Be Dead“. Lasciati in secondo piano i due dischi “di mezzo” Hate Campaign e Death Metal, con punte di massacro totale su “Reborn in Blasphemy” e “Casket Garden“, oltre ad un inedito succulento intitolato “Trail of the Dead“: brano granitico dominato da un riff trita ossa che mette in pieno risalto il classico suono “grattato”, capace di entrarti nello stomaco e sbudellarti. A chiudere la coppia per il “bis”: “Override the Overture” e “Dreaming in Red“, dopo le quali il quartetto (Kärki era già uscito) concludeva con un inchino al pubblico “simil Dream Theater” con headbanging finale senza strumenti… scena esilarante.
Peccato per i brani dell’ultimo Where Ironcrosses Grow, dei quali è stata suonata la coppia “Tragedy of the Faithful” e “Where Ironcrosses Grow“, disco che meritava un po’ di spazio in più vista la ritrovata verve di questa release. In uno show durato un’ora e trenta circa compresivi di pausa e bis, una coppietta di pezzi ci stava tutta. 

Come accennato, non sono rimasto completamente soddisfatto dai suoni della serata, molto orientati alla potenza delle chitarre ed alla chiarezza della batteria, ma che hanno sovente lasciato in secondo piano le voci, soprattutto nei momenti di scream dei Coram Lethe. Una mancanza che, comunque, non imputerei completamente ai suoni che, a conti fatti, hanno premiato su tutti i Soulpit, aiutati da equalizzazioni più equilibrate. Semplicemente da assassinio la sezione elettrica dei Dismember, il cui sound è uscito poderoso ed abrasivo dopo un iniziale aggiustamento.

Se posso avanzare una richiesta, dopo Dismember ed Entombed e per continuare la sfilata death metal d’annata, non vedrei affatto male sul palco della Gabbia i Grave o i Necrophobic. Chiederei gli Edge of Sanity con Dan Swano, ma per loro la “vedo dura”. Io la butto lì, chissà che qualcuno mi ascolti.

Una conclusione del tutto personale, forse da vecchio “trombone” che ricorda com’era il death metal degli anni ’90: se penso ai brani dei Dismember ed al death svedese attuale (dal quale mi viene sempre più voglia di dissociarmi), quello che perfino si vanta di tornare alle origini, solo una parola mi viene mente… panzane. È una panzana vendere come un pregio il rinverdire uno stile che è nel DNA del metal estremo, come è ridicolo arrivare al punto di sentire bollato come “only for fans” un disco di puro death come Where Ironcrosses Grow. Poi, sul campo, la differenza si vede perché…

…C’è chi suona death metal e chi E’ death metal.
C’è chi suona per mostrarsi e mostrare i propri pezzi, c’è chi li suona per il pubblico.