Report: Metalcamp 2008 – Tolmino (Slo) 06/07/08
Introduzione
(A cura di Pier Tomasinsig)
Questa giornata di Metalcamp è stata segnata sin dall’inizio da una notevole serie di inconvenienti ed avversità, a partire dalla defezione del gruppo di apertura del palco principale, gli Herfst, passando per le voci di corridoio che per tutto il pomeriggio avevano ventilato l’eventualità che l’esibizione degli Opeth non avesse luogo a causa di problemi alla voce per Åkerfeldt (saltata anche la conferenza stampa) per finire con il tremendo diluvio che ha paralizzato il festival per quasi due ore, determinando tra l’altro la prematura conclusione dello show dei Behemoth. Giornata difficile dunque, e a maggior ragione mi sento di rendere tanto di cappello all’organizzazione, che in un modo o nell’altro è riuscita a garantire a tutte le band la possibilità di suonare, pur tra inevitabili e comprensibili ritardi.
Anche oggi il programma del main stage è non poco interessante, e vede la compresenza una notevole varietà di generi, dal thrash moderno ipertecnico degli Hacride al folk dei Korpiklaani, passando attraverso metal classico, death e industrial con Evergrey, Brainstorm, Behemoth, Helloween, Opeth e Ministry.
Domenica 6 luglio 2008
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MAINSTAGE
Herfst 14.45 – 15.15 (esibizione annullata)
Hacride 15.20 – 15.50
Evergrey 16.15 – 17.00
Brainstorm 17.15 – 18.00
Korpiklaani 18.15 – 19.00
Behemoth 19.30 – 20.30
Helloween 22.30 – 23.45
Ministry 00.15 – 01.45
2nd STAGE
Opeth 02.15 – 03.30
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[Foto a cura di Nicola Furlan]
Hacride
(A cura di Pier Tomasinsig)
Saltata l’esibizione degli Herfst, tocca direttamente agli Hacride il compito di scaldare i (finora pochi) presenti. E devo dire che i francesi sono stati una bella sorpresa, con il loro thrash moderno ipertecnico e ricco di contaminazioni progressive. I pezzi sono quasi tutti piuttosto complessi, tra riff secchi e articolati e interessanti aperture melodiche dall’incedere ipnotico. Lo show degli Hacride è ben calibrato tra momenti molto violenti e parti più atmosferiche e riflessive, e i pezzi sono eseguiti con buona preparazione tecnica e notevole convinzione. Ottima in particolare la performance del chitarrista Adrien Grousset, tanto nel riffing e negli assoli che negli arpeggi più delicati. Un antipasto di qualità che apre la giornata di domenica nel migliore dei modi, pur se il genere proposto dai nostri non è certo di facile assimilazione e non riscuote eccessivo entusiasmo da parte del pubblico.
Evergrey
(A cura di Nicola Furlan)
Mea culpa. Ammetto di non aver mai posto troppa attenzione gli Evergrey. Non li avevo nemmeno mai visti on-stage (sebbene ne avessi avuto occasione). Sono rimasto senza parole dalla bravura con cui il combo di Goteborg ha ffrontato la scena. Precisi, nella ricerca del romantico clima pronto a suscitare emozione nell’ascoltatore. Determinati, nel saper affrontare i momenti di maggior groove con grande perizia esecutiva così da togliere il fiato nelle accellerate e nei break. Ricercati, nel gusto compositivo delle parti più epic-oriented, ben cadenzate nel loro incedere.
Non mi posso sbilanciare oltre perchè conosco poco i loro dischi, ma posso confermare una qualità oggettivamente sopra la media che elegge il cantante Tom S. Englund a protagonista della scena. Oltre alla grande prestazione tecnico-vocale, il frontman ha messo in mostra una spiccata capacità di interpretazione e coinvolgimento. E se l’anticipazione che la band propone di Broken Wings è il preludio a quello che ci aspetta sul prossimo studio album in uscita a settembre, allora ne sentiremo davvero delle belle. Un grande concerto davvero.
Brainstorm
(A cura di Pier Tomasinsig)
In mezzo ad una pioggerella che continua ad andare e venire insistentemente è tempo per i teutonici Brainstorm, autori di un power metal roccioso e aggressivo, di dare il loro contributo alla buona riuscita di questa giornata. Il pubblico inizialmente non è numerosissimo, anche se si rimpinguerà un po’ nel corso dell’esibizione dei tedeschi, che si presentano sul palco compatti e determinati aprendo con Falling Spiral Down, opener dell’ultimo album “Downburst”, seguita a ruota da Words Are Coming Trough e Shiva’s Tears.
Il genere proposto potrà non essere particolarmente brillante o originale, ma i nostri lo interpretano con decisione e notevole potenza, grazie all’apporto di una sezione ritmica davvero imponente. I suoni non sono per la verità ottimali, in particolare si nota un’eccessiva distorsione sugli alti, ma questo non pregiudica più di tanto la buona prova offerta dai Brainstorm, compreso il dinamico frontman Andy B. Franck, che non esita a scendere dal palco e a mettersi a diretto contatto col pubblico. Si prosegue con Fire Walk With Me, End In Sorrow, High Without Laws e All Those Words per chiudere, sulle note della anthemica How Do You Feel, uno show piacevole, concreto e ben eseguito.
Korpiklaani
(A cura di Nicola Furlan)
Spesso sento dire che i Korplikaani sono come il prezzemolo nelle ricette di cucina. Ci sta dappertutto. Mai affermazione è stata tanto vera quanto necessaria. Presenti in tantissimi festival estivi, i sei finlandesi costituiscono la ciliegina sulla torta di ogni manifestazione. Con la loro musica rallegrano e mettono d’accordo quasi tutti i presenti, qualunque sia il genere personalmente preferito.
Il denominatore comune di ogni esibizione è divertimento, festa e birra a fiumi. Pezzi come Wooden Pints, Cottages And Saunas, la scatenata Journey Man o la valida neonata Kipumylly, mettono il luce la capacità innata di saper suonare bene e nel contempo alzare l’umore dei presenti. E non basta, dopo tre quarti d’ora di danze, l’annuncio dell’ultimo pezzo a placare la sete di una folla entusiasta. Un’altra esibizione spettacolare a cui sarebbe stato un peccato mancare. Fortunato chi c’è stato.
Behemoth
(A cura di Pier Tomasinsig)
Chiunque abbia avuto occasione di vedere i Behemoth dal vivo ben sa di cosa sono capaci i polacchi, ormai assurti a stella di prima grandezza nel panorama death metal internazionale, anche grazie alla loro impressionante bravura in sede live. Non nego perciò che fossero tra i gruppi più attesi della giornata, e non solo da parte mia. Purtroppo il tempo (nel senso metereologico del termine) non è stato clemente con loro, infierendo sin dall’inizio con una pioggia più che fastidiosa, ben presto sfociata in un vero e proprio fortunale.
Ma andiamo con ordine. I Behemoth partono subito in quarta con la terrificante Slaves Shall Serve, sfoggiando da subito l’incredibile violenza che li contraddistingue. Pur penalizzati da suoni a parer mio ben lungi dall’essere soddisfacenti, i deathsters polacchi non si risparmiano, affrontando il pubblico con il consueto piglio feroce, forti di una precisione e una velocità esecutiva che non temono rivali.
Appena il tempo di godersi le devastanti Prometherion e At The Left Hand Ov God che, con le note iniziali di Demigod, su Tolmino si riversa un vero e proprio diluvio universale, costringendo il pubblico a cercare riparo sotto i tendoni. I Behemoth tentano imperterriti di proseguire il concerto fin quando possibile, mentre un gruppo di stoici e fedelissimi fan continua ad esporsi alle intemperie pur di non perdersi il loro show. Purtroppo la pioggia e il vento sono davvero troppo intensi, e gli organizzatori sono costretti ad interrompere anzitempo. Comunque, per quel che si è potuto vedere, i polacchi stavano rendendo onore alla loro meritata fama.
Helloween
(A cura di Pier Tomasinsig)
Il temporale abbattutosi sul Metalcamp durante (e dopo) l’esibizione dei Behemoth aveva fatto temere il peggio a molti dei presenti, comprensibilmente preoccupati per le esibizioni dei gruppi successivi. Fortunatamente, con molto impegno e qualche cambiamento di programma (gli Opeth spostati sul secondo stage), oltre agli inevitabili ritardi, il festival prosegue la sua corsa.
Con un oretta di ritardo sulla tabella di marcia è dunque il momento di assistere alla calata delle ben note “zucche” teutoniche. L’inizio del concerto è una bella sorpresa per il sottoscritto: gli Helloween ci riportano ai bei tempi del primo “Keeper Of The Seven Keys” con la lunga suite Halloween e March of Time. Apertura di tutto rispetto dunque, anche se durante il primo pezzo la voce di Deris si sente poco e niente. A parte questo piccolo inconveniente i suoni sono più che buoni, puliti e ben bilanciati. La prestazione dei tedeschi appare sin da subito piuttosto convincente: esecuzione precisa ed efficace, buon lavoro di squadra e ottima performance del “nuovo” acquisto Löble alle percussioni. Weikath dal canto suo non ci risparmia i suoi soliti atteggiamenti da rockstar: occhiali da sole in piena notte, sigaretta perennemente in bocca e chitarra impugnata bassissima…insomma, non è facile trovarlo simpatico. Di Andi Deris si è già detto nel corso di quasi quindici anni di tutto e di più; il biondo singer sui pezzi storici ovviamente non è all’altezza di Kiske, ma questo lo sappiamo tutti, e da un bel po’. Il nostro tuttavia si arrangia come può, reinterpretando i pezzi a modo suo -evitando giustamente di tentare di imitare Kiske a tutti i costi- e lasciando spesso e volentieri al pubblico il compito di cantare i cori; tutt’al più verrebbe da chiedersi se sia il caso di insistere a riproporre pezzi come Eagle Fly Free che, per quanto siano dei “must” assoluti del combo teutonico, presuppongono in modo categorico un certo tipo di estensione vocale per poter essere eseguiti decentemente dal vivo.
Ad ogni buon conto la scaletta di oggi è quasi totalmente incentrata sui classici, come A Tale That Wasn’t Right e Dr. Stein, con il lunghissimo medley centrale I Can/Where The Rain Grows/If I Could Fly/Perfect Gentleman/Power/Keeper Of The Seven Keys a rappresentare (almeno per una parte) anche gli album dell’era Deris. Si chiude con le immancabili Future World e I Want Out: che dire, un concerto certamente vivace e divertente, anche ben eseguito, che non ha mancato di raccogliere consensi da un pubblico molto variegato e ancora numeroso nonostante il maltempo. Al di la delle tante possibili critiche ai nuovi Helloween (che questa non è la sede per muovere), i tedeschi stasera non hanno sfigurato.
Opeth (2nd STAGE)
(A cura di Pier Tomasinsig)
Il concerto degli Opeth, che avrebbero dovuto suonare da post-headliner dopo i Ministy, era a rischio a causa del violento temporale che ha colpito il Metalcamp durante l’esibizione dei Behemoth. A parte questo, era tutto il giorno che giravano voci preoccupanti circa una possibile forfait degli svedesi a causa di problemi di salute di Åkerfeldt. Alla fine il concerto, anche se è stato anticipato e spostato sul secondo palco, si è tenuto ugualmente, a dispetto dei molti problemi ed inconvenienti che purtroppo hanno finito per incidere pesantemente sulla prestazione dei nostri.
Nonostante la pioggia e i succitati disguidi, quando Åkerfeldt e soci si presentano sul palco il pubblico è ancora molto numeroso e li accoglie con grande entusiasmo. Si apre con Demon Of The Fall e devo subito constatare con disappunto che i suoni non sono all’altezza: sporchi, carenti sui bassi, con la voce che risulta coperta dagli altri stumenti. Si prosegue sulle note di The Baying of the Hounds e l’impressione non migliora. Certo, gli Opeth dal vivo si confermano musicisti eccellenti e non sbagliano un colpo; tuttavia il frontman sembra pagare dazio ai suoi recenti problemi di salute e risulta in più di un’occasione poco convincente. Per contro è ottima la prova dei nuovi acquisti Wiberg e Axenrot, che dimostrano di essersi già integrati più che bene nel gruppo.
Nelle pause tra un pezzo e l’altro Åkerfeldt scherza col pubblico col suo ormai consueto fare sornione; mi duole però dover constatare che l’atteggiamento complessivo è di sufficienza. Forse per i suoni non adeguati o per il fatto di essere stati relegati al secondo stage, gli Opeth questa sera si limitano al compitino (molto) ben fatto. Anche la scaletta proposta quest’oggi è piuttosto particolare, dando spazio a pezzi che non si sentivano dal vivo da parecchio come Master’s Apprentices, Wreathe e la magica To Rid The Disease, forse a scapito di qualche classico in più (come Night and The Silent Water o magari qualche pezzo da “Still Life”). Giusto un assaggio dal nuovo album con Heir Apparent e si va a chiudere (almeno) in bellezza con la sempre stupenda The Drapery Falls.
In conclusione, devo purtroppo ammettere che oggi gli Opeth non mi hanno convinto; certo, i problemi erano tanti e in gran parte indipendenti dalla loro volontà; tuttavia resto dell’idea che un po’ di voglia di dimostrare in più da parte loro non sarebbe guastata, considerando tutte le persone che alla una passata di notte erano sotto la pioggia solo per vederli.
Ministry
(A cura di Pier Tomasinsig)
Sicuramente non sono la persona giusta per parlarvi del concerto dei Ministry, considerando che non conosco i loro album e non ho mai seguito la lunga e travagliata carriera della band statunitense. Non sono in grado perciò di dirvi quali pezzi abbiano suonato; grazie all’aiuto dei fan presenti posso solo affermare che la scaletta è stata prevalentemente incentrata sugli ultimi tre album. Cionondimeno ci terrei almeno a segnalare che la loro esibizione è stata strepitosa. I Ministry hanno suonato quasi alle tre di notte a causa dei vari ritardi determinati dal maltempo, davanti a un pubblico ormai tutt’altro che numeroso, ma la loro esibizione è stata comunque tra le migliori di tutto il festival. Dal punto di vista tecnico-esecutivo sono stati impeccabili: precisi, compatti e devastanti in ogni reparto. Un concerto potentissimo, tanto nella musica che nei contenuti, con il mega schermo che continuava a sparare immagini di violenza e alienazione umana a ritmo incalzante, palesemente improntate alla critica politica e sociale, riferita soprattutto alla situazione americana. Non si contano le volte in cui è apparsa, in ogni contesto possibile ma sempre con un consistente sottofondo polemico, l’immagine dell’attuale presidente Bush.
Solo un’ultima riflessione: in base a quello che ho avuto modo di sentire, questa è (o era) una band che, per impatto, presenza scenica e violenza sonora, avrebbe di che insegnare a non pochi gruppi appartenenti alla scena estrema più “ortodossa”.
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Note Conclusive
(A cura di Nicola Furlan)
Un Festival riuscito sotto tutti i punti vista: organizzazione, pulizia, costi, bill, location, servizi e, non ultimo, la cordialità dei negozi/ristoranti/bar del paese che ha ospitato l’evento. L’unico anello debole del gioiello MetalCamp è stato il servizio di security: scostanti, maleducati e a volte aggressivi, ma con un accurato meeting di ‘controllo e formazione’ anche quest’ultimo servizio potrà di certo toccare i livelli di eccellenza che nel complesso hanno caratterizzato il festival sloveno.
Provate a pensare a una serie di esibizioni che si alternano con la massima precisione possibile dalle 14.00 alle 5.00 del mattino seguente, ad un angolo di fiume cristallino in cui tuffarsi ai primi insopportabili caldi, a stand di introvabili CD, a cibo e birra a prezzi economici…Vado avanti? Meglio di no, potrei togliervi la sorpresa di un angolo di paradiso: l’ Hell Over Paradise europeo. Provare per credere.
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