Report R. J. Dio – London Astoria, 22/10/05

Di Marcello Catozzi - 23 Novembre 2005 - 13:23
Report R. J. Dio – London Astoria, 22/10/05

IL CONCERTO

Londra, 22 ottobre 2005.
Ore 17.00: arriviamo in taxi nei pressi della celebre “London Astoria”, sita in Charing Cross Road, 147. Una fila tanto lunga quanto ordinata si snoda già attorno all’isolato, aspettando l’apertura delle porte. Per fortuna io e i pochi “eletti” che sono in mia compagnia disponiamo di un accredito e così possiamo evitare la coda che, come un nero serpente, avvolge mezzo quartiere. Davanti al locale incontriamo altri amici, provenienti dall’Italia, dalla Germania, dall’Irlanda, dall’Olanda, dalla Grecia e addirittura dalla California. Non potevano mancare Larry e Lori, gli onnipresenti coniugi di San Diego (CA): Larry è inconfondibile con la barba ed i lunghi capelli grigi, i suoi immancabili occhiali da sole e la sua caratteristica andatura caracollante. E poi ci sono Spiros e Doria, Diofans greci in luna di miele; la loro storia d’amore cominciò proprio con una vecchissima canzone cantata da Ronnie, intitolata “An angel is missing”. Ricordo che ad Atene, nello scorso mese di luglio, durante il party di compleanno organizzato dal locale Dio Fanclub, avevamo raccontato a Ronnie questa vicenda e Lui, spontaneamente, aveva cantato ai promessi sposi un pezzo di questa dolcissima canzone, con la conseguenza che Doria si era messa a piangere dalla commozione.

Il concerto di Londra è dunque l’occasione migliore per un sano rendez-vous fra di noi, storici aficionados: siamo un melting-pot accomunato dalla passione per la più grande rock star di tutti i tempi.
Ore 17.30: lo sparuto gruppetto formato da noi, baciati dalla sorte poiché muniti di pass, entra e si sistema in “galleria”, mentre di sotto la sala è ancora vuota e fervono i classici preparativi per lo show, che inizierà attorno alle 19.30. Stasera, fra l’altro, sono previste le riprese che verranno utilizzate per il prossimo DVD, la cui uscita è prevista nel 2006. Stavolta scegliamo di non piazzarci davanti al palco, in mezzo al casino del “front row”, rinunciando così alla possibilità di essere immortalati fra quelli della prima linea; per una volta ci gusteremo il concerto tranquillamente seduti nella prima fila della galleria, dove la prospettiva si presenta comunque assai godibile.
Ore 18.15: le frotte di metal kids cominciano a riempire di nero la platea, sotto di noi, come una lenta ma inesorabile marea che sale a poco a poco, opportunamente filtrata attraverso i blocchi della Security posti alla foce del fiume nero che preme all’ingresso del locale. Tra di noi serpeggia una certa curiosità per la performance di Doug Aldrich, che dopo il concerto di Varsavia ha preso il posto di Craig Goldy. I commenti di chi è stato ad Eindhoven e a Birmingham sono più che positivi, ma aspetto di vedere con i miei occhi e di sentire con le mie orecchie se quei lusinghieri apprezzamenti troveranno una conferma.
Ore 19.15: la tensione si può già avvertire nell’aria densa di fumo (Ministro Sirchia, quanto mi manchi!..). Il telone con la scenografia di Holy Diver risalta dietro al palco, illuminato da un’inquietante luce rossastra. Io e Mr. President (il mio amico George, Presidente del Dio Fanclub greco) ci scambiamo occhiate complici di intesa, felici di essere di nuovo qui, insieme ad altri “Dio-maniacs”, a condividere antiche e nuove emozioni. Ecco Andre (drum tech) che svolge gli ultimi controlli sul kit di Simon, ecco Lorenzo (mike tech) che pronuncia i suoi ultimi “One, two, one two, two two…” di prova, mentre sistema con la consueta perizia il cavo del microfono, sperando di evitare gli strali di Ronnie nel malaugurato caso in cui l’impianto dovesse emettere qualche dannato fischio durante lo spettacolo.
Ore 19.30: le luci si spengono e, tra le oscure nuvole di fumo che si levano dal palco, possiamo scorgere le silhouette dei membri della band, mentre la sigla di introduzione si diffonde trasmettendoci forti vibrazioni allo stomaco. Here we go, dunque! La line-up è la seguente:

– Ronnie James Dio: vocals
– Doug Aldrich: guitar
– Rudy Sarzo: bass
– Simon Wright: drums
– Scott Warren: keyboards

Si attacca subito alla grande, con TAROT WOMAN. George non sta già più nella pelle, perché non vedeva l’ora di ascoltare questa canzone alla quale è particolarmente legato, essendo un inguaribile fan dei Rainbow. Ci ritroviamo a cantare a squarciagola, come sempre, ed a mostrarci reciprocamente la nostra pelle d’oca, di cui andiamo fierissimi. Ci scambiamo sguardi che esprimono il massimo del godimento, per due irriducibili nostalgici come noi. E’ bellissimo poter condividere con qualcuno sintonizzato sulla stessa lunghezza d’onda sensazioni di questo tipo! We are lightning, we are flames: and we burn at the touch of a spark… E difatti ci accendiamo di nuovo, con la mistica THE SIGN OF THE SOUTHERN CROSS, di Sabbathiana memoria. Il sound è avvolgente ed i brividi viaggiano che è un piacere lungo la spina dorsale. Attendo con particolare impazienza l’assolo di Doug Aldrich che, puntuale, arriva a soddisfare la mia brama, preceduto da un colpetto alla pedaliera. Il suono è corposo, deciso e graffiante: direi che si inserisce a meraviglia nel contesto. Non ci sono sbavature o imperfezioni e Doug si muove con buona disinvoltura; del resto il biondo guitar hero aveva già partecipato al “Killing the Dragon Tour” (anno 2002), riscuotendo notevoli consensi. Anche in ONE NIGHT IN THE CITY se la cava alla grande, con un assolo precisissimo e pieno di personalità.

I miei amici non riescono proprio a tenere le loro natiche sulle sedie, mentre la platea sottostante è un mare in burrasca, scosso da ondate continue. Come tanti assatanati siamo pronti a divorare avidamente, ad una ad una, le perle di questa spettacolare esibizione appena iniziata: we are ready to rock!
Rispetto all’ultimo concerto (Varsavia) mi godo l’originalissimo filmato di presentazione di “Holy Diver”, ambientato in un fantascientifico scenario, grazie alla mia posizione privilegiata, che mi consente di apprezzarne in pieno tutti i contenuti: certe riprese in soggettiva mi danno quasi la sensazione di essere sulla groppa di un dragone volante… Gli amici sono entusiasti di questa proiezione e, quando la band attacca con STAND UP AND SHOUT, l’Astoria sembra esplodere. L’entusiasmo non si spegne, ma anzi si diffonde sempre più e ad ogni brano pare raggiungere il suo culmine. Con HOLY DIVER, granitica e rocciosa, il coro è totale e Ronnie se ne compiace: lo capisco da quel familiare sorrisetto, appena accennato con l’angolo della bocca, davanti a un pubblico in pieno delirio!
Mi rivolgo a George: “Ora stai bene attento alla canzone seguente e dimmi se conosci qualcuno in grado di cantarla così.” GYPSY irrompe con tutta la sua energia, immutata negli anni: quella robusta trama di basso e batteria, quei riff graffianti con acuti supersonici, ma soprattutto quella voce, capace di inerpicarsi su vette proibite ai comuni mortali… Alexander, dalla Germania, mi guarda stupito e mi chiede: “Ma come fa a cantare in questo modo? Mi sembra addirittura migliorato rispetto all’ultima volta! E’ incredibile!”. Ha proprio ragione il nostro amico teutonico: i commenti che sento ogni volta sono ricorrenti e, giustamente, le qualità di questo inimitabile frontman sono state celebrate in migliaia di occasioni. Che dire? Ricordo che l’anno scorso, durante un after-show, un fan greco ebbe a chiedergli: “Ti prego, Ronnie, svelami il tuo segreto: come fai a cantare a questi livelli e a mantenerti così in forma? Ogni anno mi sembri più forte e la tua voce è sempre pulita e potente. Insomma, qual è il tuo segreto?” Risposta: “Il mio segreto? Sono italiaaaanooo!”. Risata generale.
“Ragazzi, ora godetevi il DRUM SOLO” – avverto i miei compagni, che si bevono tutto d’un fiato il piacevolissimo assolo di Simon, caratterizzato da un ottimo lavoro di gambe e da rullate precise, nonché dal classico botta e risposta con il pubblico scatenato. Anche stavolta il connubio con la musica classica (“Jupiter” di Gustav Holst, tratto dalla sua “Planets Suite”) funziona e riscuote il meritato successo.

Per noi vecchi fans è un piacere indescrivibile poter assistere, dal vivo, ad un concerto nel quale ci viene proposto, nella sua interezza, un album di storica importanza quale “Holy Diver”: ci pare addirittura di rivivere quell’epoca, grazie alla straordinaria capacità evocativa di quelle note indimenticabili. Ci lasciamo trasportare dalle forti vibrazioni emotive innescate dalle note della band, con la scoppiettante CAUGHT IN THE MIDDLE, la suggestiva DON’T TALK TO STRANGERS (la cui melodia iniziale affascina ed ammalia, per poi trasformarsi in una scossa di rude violenza), l’energica STRAIGHT THROUGH THE HEART, la fantastica ed appassionata INVISIBLE (anch’essa molto impegnativa sotto il profilo vocale), l’immancabile RAINBOW IN THE DARK (con l’inconfondibile trama intessuta dalle tastiere di Scott, quanto mai heavy e cattive al punto giusto) che fa saltare tutti come tanti indemoniati ed, infine, l’inquietante SHAME ON THE NIGHT.

Intorno a me vedo scambi di occhiate di consenso e di estrema soddisfazione, mentre i flutti umani, di sotto, continuano a ondeggiare nel loro moto perpetuo: there’s perfect harmony in the rising and the falling of the sea… Non si verificano, tuttavia, episodi di “people surfing” (ovvero: rotolamenti di persone sopra le teste della gente in platea, fenomeno alquanto ricorrente in eventi della specie), la cui pratica è vietata; ricordo di aver notato, da qualche parte, un curioso cartello di divieto che raffigurava un omino sopra alle teste degli spettatori.
Ma è ora di concentrarsi sul GUITAR SOLO: orecchie e occhi spalancati, attenzione al massimo per cogliere ogni risvolto dell’esibizione di Doug. Il sound è bello pieno e “groove”, mentre – tecnicamente parlando – le scale sono veloci e precise, così come i riff, che riescono a colpire per gusto e originalità. E’ piacevolissimo, poi, l’intermezzo blues, che secondo me costituisce un valore aggiunto rispetto alla performance del predecessore. Fans ed intenditori si dimostrano favorevolmente impressionati. Un amico greco esclama persino: “Finalmente un chitarrista come dico io! Era ora!” E mi rivela di preferire Doug a Craig e spera che la sua collaborazione all’interno della band continui a lungo.

Si continua con la presentazione degli altri gioielli della collezione: in GATES OF BABYLON (dedicata a Cozy Powell) Doug Aldrich conferma di essersi ambientato come meglio non avrebbe potuto. “Sleep with the devil, the devil will take you away”. Io e George ci ritroviamo, con l’indice puntato, a guardarci l’un l’altro, mentre cantiamo le strofe di questa mitica canzone, rispettando in tal modo la nostra tradizione. Il finale è possente e scandito: “The devil is me and I’m holding the key to the Gates of Sweet Hell Babylon”. Il nostro coro si fonde con il boato della folla sottostante (e sovrastante, visto che sulle scalinate dietro di noi il calore e la partecipazione non sono da meno rispetto alla platea).
Una sventagliata di luce bianca schiarisce la panoramica sotto di noi, mostrandoci un mare in burrasca di teste e braccia protese in alto, mentre il lungo e scheletrico braccio della telecamera si abbassa per qualche passaggio ravvicinato, fino a sfiorare la schiuma (soprattutto di birra) delle onde sempre più agitate.
HEAVEN AND HELL ci prende per mano e ci trascina giù, nelle oscure profondità delle viscere dell’inferno. Io e George aspettiamo ansiosi il momento – clou, vissuto tante volte insieme: il faro di luce rossa che illumina la figura di Ronnie, evidenziandone i tratti del viso in un sogghigno che mette i brividi. In quell’istante rimpiangiamo di non trovarci nel front, come al solito, per poter cogliere da vicino l’espressione demoniaca di Ronnie.

THE MAN ON THE SILVER MOUNTAIN è un vero trionfo: l’impressione è che i fantasmi dei gloriosi Rainbow si stiano materializzando sul palco, mentre tutti cantiamo in preda all’estasi, accompagnando le mitiche strofe con un headbanging sfrenato; poco distante da noi osservo la chioma platinata di Wendy, che segue anch’essa, ritmicamente, il tempo della canzone: I’m the day, the day, I’ll show you the way, and look: I’m right beside you. I’m the night, the night, the dark and the light, with eyes that see inside you. Nessun altro artista riuscirà mai a raggiungere livelli di tale poesia ed intensità. Ammiro completamente rapito lo stile di questo inimitabile cantante, che alla sua stupenda voce unisce una speciale ed unica interpretazione, sempre densa di pathos. A tale proposito mi viene in mente un’intervista, nella quale Dio aveva, appunto, dichiarato che la gestualità rappresenta un fattore assai rilevante nel contesto scenico, sottolineando che questa sua caratteristica deriva, senza dubbio, dalle sue origini italiane: infatti i movimenti delle sue mani fanno sempre da splendida cornice ai capolavori canori che ci regala, così come la sua tipica mimica facciale e le sue movenze, che si abbinano perfettamente al senso delle canzoni.

Ora l’atmosfera diventa ancor più arroventata con LONG LIVE ROCK AND ROLL, il cui coro si leva altissimo, quasi a sfondare le nere pareti dell’Astoria. Una degna cornice per il DVD – penso – a parte l’imprevisto intermezzo che si verifica allorché un energumeno in eccesso di protagonismo (e probabilmente in preda ai fumi dell’alcool) riesce, con un balzo, ad irrompere sul palco ed a raggiungere l’esterrefatto Ronnie, il quale però, con grande mestiere, si lascia abbracciare dal soggetto (anche perché quest’ultimo è un esemplare di taglia XXL), prima che lo stesso venga prelevato da due membri di una Security purtroppo presa in contropiede.
Si chiude con WE ROCK, sparata con eccezionale potenza e vigore, con il finale arricchito dai classici vocalizzi che lasciano a bocca aperta i meno avvezzi a tali prestazioni. Non abbiamo, però, il piacere di ascoltare “The last in line” (che avevo preannunciato ai miei amici, nel ricordo del concerto di Varsavia), perché stasera ci sono, purtroppo, delle tempistiche da rispettare, imposte dai responsabili dell’Astoria. La band si presenta dunque per l’inchino di rito davanti al pubblico che, con un’ovazione assordante, esprime tutta la propria gratitudine.
George, a parte la consueta felicità di fine concerto, è estremamente orgoglioso in quanto, per ben due volte nel corso dello show, il suo connazionale Spiros – dal front – è riuscito a lanciare sul palco i suoi due banner e Ronnie li ha esibiti mostrandoli alla folla, consegnandoli in tal modo alla memoria dei posteri, visto che verranno immortalati sul prossimo DVD!
Ore 21.30: mentre la fiumana scorre lentamente verso l’uscita, noi fortunati possessori di pass cerchiamo di risalire la corrente e, come ostinati salmoni, riusciamo a guadagnare le tortuose ed anguste scale del backstage (degne di Quasimodo), in un via vai turbinoso di addetti ed ospiti più o meno famosi del jet-set londinese. Incontro Doug Aldrich, che subito mi chiede se il suono del suo ampli fosse abbastanza heavy. Lo guardo e gli domando: “Ma mi stai prendendo in giro? Il tuo sound era semplicemente perfetto!” Mi ringrazia con un sorriso e poi mi richiede un parere sul suo assolo. Con l’occasione gli rivolgo la domanda che più mi sta a cuore e, cioè, come abbia fatto a prepararsi al Tour in così poco tempo, visto che praticamente ha avuto a disposizione poco più di una settimana dal momento della richiesta avanzata nei suoi confronti dal Management a quello della sua entrata ufficiale nel gruppo. Con la naturalezza più disarmante Doug mi risponde: “Ho suonato no stop per una settimana!”. E in una sola settimana è riuscito ad imparare alla perfezione tutti i pezzi della set-list? – penso. Sono senza parole. Doug si mostra comunque felicissimo di essere ritornato nella band, anche se resta da chiedersi fino a quando ci resterà: i mesi successivi ci diranno se la sua collaborazione avrà carattere continuativo oppure se il biondo guitar-hero tornerà alla corte di David Coverdale…
Incontro Rudy Sarzo, che anche stasera ha evidenziato una prestazione eccezionale; per me è un immenso piacere intrattenermi con questo grandissimo personaggio, tanto scatenato e grintoso sul palco con la sua presenza scenica, quanto pacato e tranquillo nella vita di tutti i giorni: Rudy si è rivelato, infatti, persona di estrema sensibilità ed i nostri scambi di opinione sono sempre interessanti, mai banali e scontati, ma anzi molto profondi e di sorprendente versatilità.

Dopo un saluto veloce a Scott, che ostenta la solita espressione un po’ assente, scambio un affettuoso abbraccio con Simon, al quale rifaccio i miei complimenti per il suo “drum solo” classicheggiante. Premesso che Cozy Powell è un idolo anche per lui, Simon mi rivela che si ispira proprio all’indimenticato drummer nella costruzione e nell’esecuzione dei suoi assoli. Per quanto concerne la scelta dei brani classici, questa è il frutto della fattiva collaborazione con Ronnie, il quale esprime sempre un parere anche sul tipo di impostazione da dare all’assolo stesso. Il nostro discorso si sposta poi dal serio al faceto, nel senso che – come nel più squallido dei bar sport – ci ritroviamo a discutere di Champions’ League (Simon è tifoso del Manchester United). Dulcis in fundo, ecco Ronnie, che pensavo di trovare più contrariato per l’episodio del fan riuscito a salire sul palco. Invece è cordiale e spiritoso come al solito. Scambiamo due chiacchiere anche con gli altri fans venuti dalla Germania e dalla Grecia, i quali nell’occasione gli consegnano il DVD con le immagini del concerto di Atene e del party di compleanno che, nel luglio scorso, avevamo organizzato in suo onore in hotel. Dopo le foto di rito, purtroppo giunge l’ora di salutarci: forse pensando all’ultimo nostro incontro di Varsavia ed alla sua sorpresa di trovarmi in quel posto, Ronnie – grande uomo di spirito – si congeda dicendomi: “Ok Marcello, allora la prossima volta ci vediamo a Tel Aviv?”. Beh, non sarebbe male, in effetti, ma prima c’è la data di Belfast, ah ah!
Ma dopo tutto, perché no? – penso – In fondo, siamo Rock and Roll friends, with Rock and Roll trends

IL RITORNO

Londra, domenica 23 ottobre 2005.
Ore 17.30: sul pullman di linea che mi porta da Victoria Station all’aeroporto di Luton, con gli occhi socchiusi, rivedo come in un film le immagini del mio straordinario weekend londinese e me le gusto tutte, una per una: il mio arrivo all’hotel (in zona centrale), lo shopping da Harrods, l’incontro con i miei Dio-friends provenienti un po’ da tutto il mondo, il concerto, l’after-show e tutto il resto. In stato di dormiveglia, dolcemente cullato dal rullio dell’autobus, mi godo questo piacevole flash-back, pensando che tutto, ma proprio tutto, è andato liscio nella mia trasferta in terra britannica, senza inconvenienti o contrattempi di sorta. Già, davvero tutto perfetto: trovo che sia rilassante lasciare la mente libera di “svolazzare” come una farfalla e di posarsi sui momenti più belli appena trascorsi… Lo faccio spesso ed anche stavolta mi viene spontaneo abbandonarmi al dolce piacere dei ricordi… La frenata un po’ brusca mi riporta alla realtà: siamo arrivati a Luton.
Luton, ore 18.30: dopo una breve telefonata alla mia bimba, con la promessa di consegnarle qualche regalino al mio arrivo a casa, trascino stancamente il mio trolley (strapieno) verso il banco del check-in. Cerco nella tasca interna del giubbotto la mia carta d’identità, ma non la trovo, mentre la gente dietro di me incalza. Dannazione, non la trovo! A questo punto esco dalla fila ed apro la valigia, mentre un senso di calore comincia ad assalirmi. In valigia non c’è. Un improvviso quanto inquietante flash-back: qualche istante prima del concerto, il mio amico George aveva raccolto il mio portafogli da terra e io l’avevo ringraziato: ma sì, ecco quando ho perso il documento! Nella bolgia dell’Astoria! – penso – No, non ci posso credere! E ora che faccio? Raggiungo l’impiegata del check-in esibendo un’espressione pietosa, senza peraltro sforzarmi molto, ma ottengo un secco rifiuto: senza documento, non è possibile imbarcarsi. Dopo qualche minuto, da buon italiano, ci riprovo presso un’altra impiegata, argomentando che sono in possesso di patente automobilistica, di regolare conferma di prenotazione del volo, precisando che devo assolutamente raggiungere la mia famiglia in Italia, ecc. Ma non c’è nulla da fare: “no document, no parti”! Ora mi sento addosso un caldo pazzesco, come se fossi in una sauna finlandese. Ad uno ad uno mi cadono sulla testa i pezzi del quadro idilliaco che stavo rimirando fino a pochi minuti fa. Come spesso accade nella vita, in pochi istanti può cambiare radicalmente uno scenario ed una situazione positiva può volgere al peggio in un baleno!
Ore 19.00: cerco di rialzarmi dopo il knock-down e mi informo sugli orari dei voli di ritorno: con Ryan Air la risposta è negativa, sia per il lunedì che per il martedì, ma con Easy Jet ci sarebbe un volo che parte l’indomani alle 13.15, da Gatwick. Tuttavia non posso prenotare il posto, perché non ho la certezza di ottenere in tempo utile un documento valido per l’espatrio. Oh, my God! Penso che forse sto sognando e che, da un momento all’altro, mi sveglierò da questo incubo e tirerò un sospiro di sollievo nel mio letto. Invece non succede nulla e il mio incubo continua.
Ore 19.30: guardo i passeggeri diretti alle porte di imbarco e mi viene il classico magone. Passo davanti ad uno specchio ed osservo la mia figura, ingobbita sotto il peso della delusione, mentre il mio mal di schiena si fa sentire in modo più forte. Mi dirigo mestamente verso l’uscita e raggiungo la stazione dei pullman.
Ore 20.00: rieccomi su un dannato bus di linea, diretto a Londra. Un’ora e mezza di strada con lo stomaco annodato e la preoccupazione di non riuscire a tornare a casa, l’indomani. E pensare che stasera desideravo ardentemente un amplesso con il mio divano, comodamente stravaccato davanti alla tv divorando i miei adorati pasticcini… Invece, a quanto pare, per cena mi mangerò solo del fegato (il mio).
Londra, ore 21.30: entro alla Stazione di Polizia nei pressi di Victoria Station e deposito la denuncia di smarrimento della mia carta d’identità, poi mi faccio portare da un taxi (che accetta il pagamento con carta di credito) all’Astoria, per un disperato tentativo di recuperare il documento smarrito la sera prima. Esito negativo. Il taxi mi riconduce nei pressi del Consolato Italiano, dove mi dedico alla ricerca di un albergo. A quanto pare, gli hotel della zona sono tutti piuttosto ambigui, gestiti da indiani (o pakistani? Mah! Diciamo oriundi) dall’atteggiamento equivoco e per nulla rassicurante. Al terzo tentativo decido di fermarmi, anche perché sono esausto. Ore 22.00: ricevo la chiave n. 105 e salgo in camera; apro la porta della 105 e mi trovo davanti una signora spettinata, isterica e indignata, che mi urla qualcosa, tipo: “Questa è la mia stanza, fuori di qui!”. Le mostro il numero della chiave, ma lei non vuole sentire ragioni e chiama la reception: in effetti entrambi siamo nel giusto, poiché l’indiano della reception si è sbagliato. Grr..! Forse la sua mente stava navigando in meditazione fra le acque del Gange… Ottengo un’altra chiave e finalmente conquisto una camera tutta per me. Le prese sono di tipo britannico; il che non mi permette di ricaricare i cellulari: sono proprio off-line, tagliato fuori dal mondo! Con una doccia cerco di lavare via la delusione e la tristezza di questa maledetta domenica sera e mi abbandono sul letto, in compagnia del mio mal di schiena, pensando a domani mattina e a ciò che mi aspetta.

Lunedì 24, ore 7.00: il suono lancinante di una sirena fortissima mi sveglia e mi ritrovo quasi abbracciato al lampadario per il sussulto causatomi dello spavento. Ma che sta succedendo? Sono forse finito sulla macchina del tempo e sta per cominciare il bombardamento su Londra nella II^ Guerra Mondiale? La sirena si spegne dopo una ventina di secondi ed i miei battiti cardiaci si abbassano al livello standard. Mi vesto e scendo al piano sotterraneo, in una specie di bunker allestito per la colazione.
Ore 7.25: esco dall’hotel e, dopo una lunga camminata sotto la pioggia, finalmente approdo al Consolato Italiano. Ci sono già 6 persone in attesa: cominciamo bene! Un cartello segnala l’orario di apertura: ore 9.00. Non mi resta che attendere e sperare che tutto vada per il verso giusto; penso con insistenza all’aereo che partirà alle 13.15 ed il mio spirito è già in coda per il check-in. Ma ce la farò ad ottenere il documento nel giro di un’ora?
Ore 9.00: siamo un centinaio di persone in attesa dell’apertura. Mi guardo attorno e noto che, davanti agli altri Consolati della zona (norvegese, austriaco, spagnolo, belga), non c’è neanche un’anima: ma è possibile che solo noi italiani abbiamo problemi all’estero? Qualcuno sta litigando perché vuole entrare prima del suo vicino compagno di sventura, quando un funzionario dall’interno apre il portone e grida: “Se non vi mettete tutti in fila a sinistra, non faccio entrare nessuno, avete capito?” Mi vengono in mente le scene che si verificano quasi quotidianamente davanti alla Questura di Novara, allorché l’Agente di turno cerca di mettere in ordine la fila di extracomunitari. Che tristezza!
Io sono il settimo della coda e non vedo l’ora di risolvere questo problema che mi sta turbando, per poter poi correre all’aeroporto: ho i minuti contati, maledizione! Ascolto i discorsi di un paio di sciagurati che si scambiano le loro esperienze; uno di loro dice che è la terza volta in dieci giorni che si presenta al Consolato. Aarrghh! Sto quasi per svenire! Intanto la prima persona della coda è stata “respinta”, perché senza appuntamento. Ma come? Dunque finirò anch’io in fondo alla fila? E mi toccherà ritornare, domani o un altro giorno, al Consolato per il documento? Sospeso fra questi angoscianti interrogativi, aspetto con ansia il mio turno.
Ore 9.10: tocca a me. “Lei, Signore, ha l’appuntamento?” Rispondo affermativamente e dichiaro di essere appena stato alla Polizia; è una balla, ma mi serve per entrare. Peccato che poi, dopo essermi spogliato del giubbotto per il passaggio al metal detector, venga anch’io cacciato via malamente, in quanto sprovvisto delle fotografie che occorrono per il rilascio del documento. “Signore, Lei sta perdendo tempo, ha capito? Vada a Victoria Station e faccia le foto, poi torna qui, ha capito?” Ho capito. Mi rivesto ed esco, passando vicino alla coda di sventurati e mi metto a correre, sotto la pioggia, ansimando come un cavallo bolso, alla volta di Victoria Station. Giunto lì, affannosamente mi metto alla ricerca della macchina per le fotografie self-service.
Ore 9.20: ecco la macchina fotografica, con la sua tendina azzurra! Peccato che mi siano rimasti in tasca solo gli ultimi 2 biglietti da 10 sterline, mentre la macchina mi chiede 3,50 in moneta. Nessun commesso dei negozi vicini è disposto a cambiarmi la banconota da 10; poi capisco che devo acquistare qualcosa e così compro un pacchetto di chewing gum, di quelli fortissimi al gusto di menta che odio perché bucano l’esofago! Torno alla macchina delle foto con la faccia stravolta, regolo il seggiolino troppo basso (forse un hobbit se ne era servito, prima di me) e mi piazzo in posa. Dopo 90 interminabili secondi posso arraffare le foto, per portarle trafelato al Consolato. Chissà se riuscirò a prendere l’aereo? La mia speranza comincia a vacillare; per farmi forza penso alle parole di “My eyes”: I’ve fallen off the edge of the world, I’ve fallen from the top of the mountain, just to rise again…!
Ore 9.35: arrivo sconsolato al Consolato, supero la coda di disperati ancora in attesa fuori dal portone, mi infilo nel metal detector e, tutto sudato, entro nel salone tipo A.S.L., con la gente munita di biglietto che attende speranzosa il proprio turno.
Ore 9.40: riesco a parlare con un’impiegata, per nulla gentile, che mi fa compilare 3 moduli e, quindi, mi dice che successivamente verrò chiamato per ritirare il documento. Chiedo quanto tempo occorra, ma in malo modo mi viene risposto di aspettare e basta. Mi siedo e guardo nervosamente le lancette dell’orologio, sperando che il tempo non trascorra troppo velocemente.
Ore 10.05: vengo chiamato allo sportello, ritiro il documento (Yeah!) e schizzo fuori per un’altra disperata corsa verso l’hotel, dove recupero la valigia per poi dirigermi (di corsa, of course!) a Victoria Station. Comincia a concretizzarsi il mio desiderio di acchiappare l’aereo delle 13.15 a Gatwick! Meno male che sono abbastanza allenato nel jogging – penso – ma, con le scarpe, i vestiti pesanti, il trolley e questa dose di tensione addosso, la fatica aumenta in misura esponenziale!
Ore 10.25: arrivo a Victoria Station col fiatone e le ascelle bollenti: quasi inciampando nella mia lingua, chiedo informazioni sui pullman in partenza per Gatwick. Il prossimo partirà solo tra un’ora. Aarrgghh! Troppo tardi! Do un’occhiata rapida e nervosa in giro e scopro che nel sotterraneo passa una linea ferroviaria proprio diretta a Gatwick. Mi precipito giù “like a (t)rolling stone” e trovo un treno che sta per partire; il costo è di 14 sterline: perfetto! Me ne erano rimaste 15!
Ore 10.30: finalmente posso riposarmi e tirare il fiato, seduto comodamente sul treno che lascia Victoria Station diretto all’aeroporto. Ma ce la farò a prendere l’aereo? Con il residuo di carica della batteria del mio cellulare riesco a dare disposizioni per la prenotazione on line e, nel giro di mezzora, dall’Italia mi arriva la conferma. Accolgo la notizia con un sospiro liberatorio: comincio a credere di poter tornare a casa in giornata!
Ore 11.15, aeroporto di Gatwick: la ressa è disumana. Alla reception di Easy Jet c’è una fila pazzesca. Un signore olandese, molto distinto, sta cercando disperatamente di ottenere un’autorizzazione per il check-in, pur in assenza del passaporto (appena smarrito in taxi): lo guardo con tanta comprensione (e compassione) e gli auguro buona fortuna.
Ore 12.00: dopo un’estenuante coda riesco a fare l’agognato check-in ed ottengo la carta d’imbarco, che custodisco come una reliquia. Non mi resta che attendere. Provo finalmente un pochino di sollievo: dopo tanta tensione, la mente si può di nuovo rilassare e mi ritrasmette le immagini vissute durante il mio “Rock and Roll weekend”, con la colonna sonora del concerto dell’Astoria. Riaccendo volentieri il mio walkman interno, mentre passeggio per i negozi dell’aeroporto di Gatwick. If wishes could be eagles, how you’d fly… Sì, tra poco potrò volare verso casa!
Ore 13.00. Dopo essermi rifocillato con una barretta di cioccolato, di cui sono golosissimo (ecco una cosa che mi accomuna a Ronnie), le porte dell’imbarco si aprono, a suggello della fine del mio incubo (mmhh… forse!).
Ore 17.00. L’aereo è appena atterrato a Linate. Il mio primo istinto sarebbe quello di baciare il suolo, ma forse darei troppo nell’occhio. Preferisco impiegare le mie ultime energie per uno scatto felino che mi porta in pole position nella fila del controllo passaporti. Non vedo l’ora di schizzare fuori dall’aeroporto e di fiondarmi a casa. Ma l’Agente di Polizia mi precisa che il documento del Consolato non può essere considerato valido. “Scusi? Cosa intende dire?” Risposta: “Mi spiace, deve mettersi da parte e attendere”. E così mi tocca aspettare che tutti i passeggeri abbiano effettuato il controllo, prima di spiegare le mie ragioni. Niente da fare. Dopo qualche minuto di sterili discussioni sulla validità del documento rilasciatomi dal Consolato, vengo accompagnato alla Stazione di Polizia dell’Aeroporto, dove mi toccherebbe depositare la denuncia, ma fra un’ora, perché l’addetto è assente. Aaarrgghh! Fortunatamente riesco a convincere l’Ufficiale di turno e, di conseguenza, a dileguarmi, con l’impegno di presentare denuncia il giorno dopo, nella mia città.
Ore 19.30: “Home Sweet Home”! Il mio lungo weekend si è ormai concluso e, a questo punto, credo che mi resteranno impressi nella mente solo i ricordi positivi della mia recente esperienza; cancellerò gli episodi più critici e ci riderò sopra con gli amici. Stanotte, prima di addormentarmi, in fase di totale relax, rintanato nel mio angolo di mondo, ripercorrerò gli istanti più significativi e le emozioni più intense, accendendo il mio specialissimo “registratore interno”: potrò rivivere così (in formato audio e video) tutte le canzoni del superconcerto dell’Astoria nella mia dimensione virtuale! Quale migliore medicina lenitiva ed anti stress, dopo la mia inattesa disavventura nella perfida Albione?
We made the mountains shake, with a laughter as we played, hiding in our corner of the world

Marcello Catozzi