Report: Saxon e Masterplan – Trezzo d’Adda, 15/04/2007

Di Marcello Catozzi - 18 Aprile 2007 - 10:41
Report: Saxon e Masterplan – Trezzo d’Adda, 15/04/2007

Novara, 15 aprile 2006, ore 16.00.
E’ finalmente giunta l’ora di mettermi in viaggio, alla volta del Metallo, mentre il sole splende alto nel cielo in questa giornata di caldo estivo. Ma che fine ha fatto la primavera? Mi concentro sulla destinazione e ricordo che l’ultima volta ero riuscito a raggiungere il Live Club di Trezzo sull’Adda solo dopo diverse deviazioni e smarrimenti lungo il tortuoso tragitto, dovute al particolare posizionamento del locale. Proprio perché stufo di perdermi durante le mie numerose peregrinazioni sulla via del Rock, mi sono munito di navigatore e, pertanto, mentre salgo a bordo della mia Opel Ascona classe 88, mi sento baldanzoso e sicuro di arrivare al Live in un baleno. Purtroppo, però, la realtà si rivela ancora una volta difforme rispetto alle aspettative: il nuovo svincolo autostradale, a quanto pare, non è stato inserito nell’aggiornamento della cartografia, e così anche in questa occasione il mio approdo risulta frutto di tortuosi e sofferti percorsi, scanditi da orribili imprecazioni (le mie) e da confortanti “ricalcolo” (della tranquillizzante voce femminile del navigatore).
Mentre parcheggio la mia rock car, noto i giganteschi TIR sui quali è dipinta l’inquietante copertina di “The Inner Sanctum”, di ispirazione sabbathiana; mi avvio all’ingresso giusto in tempo per le conferenze stampa, organizzate in un mini container che pare un forno a microonde (sia per le dimensioni, sia per la temperatura). Quando esco da questa sala di cottura, boccheggiando come un salmone agonizzante mi trascino verso la scala che conduce alla zona concerto. Mi sono perso la band di supporto, ma per fortuna sono in tempo per la parte più stimolante della serata.

Alle 20.45, puntuali come un orologio svizzero (anzi tedesco, in considerazione della nazionalità del leader della band), appaiono sul palco i MASTERPLAN, accolti da una calda invocazione:

– Mike Di Meo: vocals
– Roland Grapow: guitar
– Jan Eckert: bass
– Axel Mackenrott: keyboards
– Mike Terrana: drums

La partenza è fulminante. Il tellurico drummer imprime un tempo vertiginoso a questa Spirit never die e veniamo subito trascinati dalla ritmica allucinante di questa tremenda macchina da guerra che risponde al nome di Mike Terrana. Anche la successiva Enlighten me evidenzia che la band, sorretta dal truce guerriero a torso nudo, non intende fare prigionieri. La mia opinione è che i Masterplan abbiano fatto un enorme salto di qualità acquisendo fra le proprie fila questo mostro sacro, capace (come pochi altri) di forgiare lo stile e il sound di una band.
Nei 45 minuti previsti vengono proposte un paio di canzoni dell’ultimo album accanto a pezzi del passato. Il prode Rolando avrebbe voluto inserire più brani, ma l’esibizione dev’essere necessariamente contenuta nei tempi fissati. La band mette comunque in mostra un’ottima coesione, e l’intesa si dimostra senza sbavature per tutta la durata del concerto.

E’ da sottolineare, soprattutto, la robusta base ritmica, impressionante per la disumana potenza sprigionata da quel motore bicilindrico che pulsa dentro la doppia cassa e i tamburi nero lucido, con quelle cromature luccicanti e quegli inconfondibili coni reggipiatto. Un altro elemento che caratterizza questa esibizione è lo smalto evidenziato da un sorridente e compiaciuto Roland Grapow, il quale arricchisce e addolcisce sapientemente la rozzezza di tale sound con le sue scale pirotecniche “Helloween style”, alternate a più morbide melodie. Tra i momenti di maggiore intensità vanno citate l’orecchiabile Take me over, cantata dai giovani fedelissimi delle prime file, e Back for my life, in cui convivono vigore e dolcezza. E ancora, il singolo mid tempo Lost and gone, la piacevole Crystal Night e la scoppiettante Kind Hearted light. Anche Mike Di Meo, dal canto suo, riesce a non sfigurare, nonostante la sua timbrica vocale appaia, forse, un pochino avulsa da tale rude contesto; tuttavia il newyorchese (di padre avellinese, come ci tiene a precisare) se la cava nel migliore dei modi, con voce pulita e acuti mai fuori dalle righe, specie nei momenti più dolci.

L’essenza dei Masterplan è tutta qui, in fondo: deliziose melodie che si innestano su una rocciosa impalcatura metallica. Prendere o lasciare. Quanto al Drum Solo, anche questa volta il muscolare “homo telluricus” riesce a sorprendere per l’impatto devastante dei suoi tamburi, mitragliando raffiche di energia senza risparmio dall’inizio alla fine. Lo stomaco trema, scosso dalle bordate dell’incessante lavoro di gambe di Terminator Mike; osserviamo rapiti quel continuo roteare di bacchette che tormentano le pelli, mentre la sua cresta da moicano ondeggia avanti e indietro in sintonia con quel ritmo forsennato, e il drum kit (che prima del concerto troneggiava imponente sul palco) traballa paurosamente sotto le mazzate di quella furia distruttrice. Infatti, a un certo punto uno dei tamburi cede sotto le possenti bordate e dev’essere rimpiazzato in fretta dal povero drum – technician, al quale il lavoro non verrà mai a mancare finché presterà servizio al seguito di questo fenomeno. Non ci sono dubbi: Mike Terrana è attualmente il numero uno al mondo, secondo il mio modesto parere. Anche questa sera i nostri occhi e le nostre orecchie si sono beate dello spettacolo “Fast and Furious” che solo lui sa offrire, con quei passaggi vertiginosi oltre ogni limite umano, con quegli stacchi rabbiosi e potenti, con quello spingersi al di là di ogni immaginazione in fatto di tecnica e aspetti scenografici (visto che anche l’occhio, come si suol dire…). Il rischio, secondo me, per una band che abbia la fortuna di assoldare questo fuoriclasse, è che l’aspetto musicale passi in secondo piano, proprio perché l’attenzione finisce inevitabilmente col focalizzarsi sulla batteria, sul lavoro pirotecnico di questo inimitabile funambolo, sulla sua inconfondibile sagoma che si agita dietro quel condominio di tamburi e piatti, schizzando sudore in un’incredibile e indimenticabile esplosione di suoni.

Sotto il palco mi mancava quasi l’aria e, pertanto, dopo la fine del concerto dei Masterplan ripiego nelle retrovie per un drink: non vorrei ritrovarmi completamente disidratato durante lo show dei SAXON!
Alle 21.45 precise si spengono le luci e, sulle note dell’introduzione di stampo epico, riusciamo a intravedere le sagome dei nostri eroi sassoni, mentre sale l’urlo della folla. Eccoli conquistare la scena:

– Biff Byford: vocals
– Paul Quinn: guitar
– Doug Scarrat: guitar
– Nibbs Carter: bass
– Nigel Glocker: drums

Senza tanti preamboli i “ragazzi” attaccano con State of Grace, dall’impatto sonoro deciso e travolgente. La prima sensazione che avverto è il “tiro”, pesante e massiccio ma nel contempo agile e veloce, impresso da Nigel Glocker, il cui drumming mi pare ottimamente integrato in un contesto che, forse, è sempre stato suo: mi tornano in mente le numerose discussioni sorte fra i più incalliti fan, vertenti sulla mancanza di affinità dell’ex martello sassone Jörg Michael con lo stile del gruppo, rispetto alla migliore omogeneità garantita da Nigel.
Si procede con Let me feel your power, nella quale il Generale Biff, che indossa una palandrana grigia con i gradi militari, trascina tutto il pubblico grazie al suo carisma senza confini spaziotemporali.

La mia povera schiena comincia già a dare qualche segno di cedimento, in mezzo a quella bolgia: il calore è soffocante e manca decisamente un po’ di ossigeno, ma resisterò. Never surrender..!
Le nostre orecchie fameliche trovano massima soddisfazione con i gloriosi episodi del passato alternati alle emozioni suscitate da un presente quanto mai vivo e palpitante, illuminato da fasci di luce rossa e blu: ecco dunque la verve di If I was you accanto all’inossidabile Motorcycle Man, e poi la coinvolgente Strong arm of the law, che tutti cantiamo a braccia levate, e pazienza se dalle centinaia di ascelle si leva un olezzo a dir poco tossico: sudore e metallo, è questo il mix della rovente serata!

Il condottiero Biff, da inguaribile istrione, ci chiede se vogliamo una canzone lenta o veloce. La risposta si può facilmente immaginare; ed ecco che ci viene sparata in faccia 20.000 feet, nel rispetto della tradizione. Nibbs Carter salta come un grillo per il palco, e si capisce che si diverte proprio alla grande!
Lo show prosegue con altre perle del passato quali To hell and back again e Requiem (we will remember), della quale non si può non avvertire la straordinaria intensità emotiva. La voce di Biff è forte e squillante come sempre, e direi che i suoi gesti abbiano assunto, col passare del tempo, un qualcosa di ieratico, quasi sacerdotale: gli sguardi penetranti, i movimenti lenti e misurati, catalizzano totalmente l’attenzione del pubblico, che lo segue in ogni suo spostamento.

Le sue mosse recano in sé la magia tipica dei grandi frontman della storia. In certi momenti mi ricorda Gandalf il Grigio, con quella lunga chioma, la palandrana e l’asta del microfono che brandisce come un bastone magico! Sarà la stanchezza o il caldo che mi confondono le idee… Dalla dimensione fantasy della Terra di Mezzo vengo scaraventato brutalmente nella realtà con l’immortale Princess of the night, capace di evocarmi situazioni così lontane nel tempo. Ma l’apice del pathos si raggiunge con Crusader, durante la quale vado letteralmente in estasi: il suono è perfetto, ben miscelato, violento e pulito da entrare dritto nello stomaco. In quegli istanti penso che questo pezzo, così epico e denso di contenuti, dovrebbe assurgere a inno di tutto l’Occidente, a difesa di un’identità che si sta ormai perdendo inesorabilmente… Il messaggio dei Saxon è di non mollare mai, di lottare per le nostre radici, ma mi pare che nella vecchia Europa ce ne stiamo tutti dimenticando. Fine della parentesi di ispirazione storico-sociale. Meglio concentrarsi sulla musica.

L’emozione viene mantenuta ai massimi livelli con la splendida Travellers in time, caratterizzata da un’intensa interpretazione del mitico frontman e condita da un sapiente gioco di luci. E poi la selvaggia Great White Buffalo, che fa sognare. La bellissima heavy ballad dell’ultimo album, Red star falling, riesce a raggiungere un grado altissimo di emotività espressiva, grazie alle indovinatissime timbriche e al sapiente utilizzo della poderosa ritmica, inframmezzata dagli interventi di Doug e Paul. Il tutto si svolge in un’atmosfera quanto mai suggestiva e coinvolgente, grazie alla simpatia di quel vecchio volpone di Biff, che a un certo punto raccoglie la set-list, si avvicina a Paul Quinn per consultarsi, e poi inaspettatamente straccia il foglio e se lo mangia, suscitando l’ilarità di tutta la platea.
Il calore ormai è soffocante, ma non si può fare a meno di saltare al comando di Gandalf Byford, al ritmo di altre pietre miliari della storia. Il pogo si scatena nuovamente, davanti a me, e noto un giovane occhialuto, invasato, che osa buttarsi in mezzo a cotanto ribollir di folla nonostante il suo braccio ingessato!

Potenti riff e martellate di batteria formano una muraglia di suono che ci accompagna fino alla fine di uno show memorabile, con le recenti Ashes to ashes e Atila the Hun insieme ad altri brillanti gioielli senza tempo, quali l’anthemica Wheels of Steel (per la gioia di tutti i bikers) e la celebrativa Denim and Leather.

Il concerto è finito. Ci restano la stanchezza, il sudore e la soddisfazione di aver assistito a una nuova manifestazione del Mito, che stasera si è riproposto in tutta la sua genuinità e freschezza. Lunga vita ai Saxon, inossidabili alfieri della Storia che, dopo trent’anni di carriera, riescono ancora a farci cantare e saltare come se il tempo si fosse fermato!

Marcello Catozzi