Recensione: A Higher Form Of Killing [Reissue]

Di Pasquale Ninni e Leonardo Ascatigno - 18 Novembre 2020 - 9:00
A Higher Form Of Killing [Reissue]
Band: Intruder
Etichetta: Lusitanian Music
Genere: Thrash 
Anno: 2020
Nazione:
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70

Quando Dante e Virgilio, risalendo il fiume che scorre all’interno della terra, dal fondo della voragine infernale fino all’isola del Purgatorio, si imbattono nella venerabile figura di Catone l’Uticense, vengono colpiti dalla luce che egli irradia; a questo punto, dopo che Catone, sorpreso, ha chiesto il perché della loro presenza in quel luogo, Virgilio, in segno di assoluto rispetto e riverenza verso quell’uomo che, dopo la vittoria di Cesare, pur di non sopravvivere alla caduta della libertà repubblicana si privò della sua vita, indica a Dante di inginocchiarsi solennemente al suo cospetto utilizzando queste parole inequivocabili: “Lo duca mio allor mi diè di piglio, / e con parole e con mani e con cenni / reverenti mi fé le gambe e ‘l ciglio” (Purg. I, vv. 49-51).

A questa purgatoriale situazione può essere paragonato il panorama del Thrash Metal mondiale a cavallo dei due decenni “armati”, come scriverebbe Manzoni, 1980-1990. Perché, negli anni in cui i Megadeth proponevano So Far, So God… So What! e l’inarrivabile Rust In Peace, i Testament pubblicavano The New Order, i Metallica il loro …And Justice For All e tutta la compagnia cantante, chiunque avesse voluto entrare nel fantastico regno di questo genere, illuminato delle opere musicali di tali giganti, avrebbe dovuto inginocchiarsi al loro cospetto, proprio come Dante fece nei confronti di Catone nel regno dove l’umano spirito si purga / e di salire al ciel diventa degno.

Questo è lo scenario entro cui si muovono gli statunitensi Intruder nel 1989, già debuttanti nel 1987, con il loro secondo album A Higher Form Of Killing prodotto dalla Metal Blade. Un panorama, come già anticipato, reso a tratti inaccessibile dalla presenza delle band sopra citate che, come le tre fiere impediscono il cammino di Dante nel I Canto dell’Inferno (continuano i parallelismi), marcano il territorio issandosi a baluardi del genere rendendolo di fatto di difficile approdo.

Eppure in tutto questo gli Intruder, impavidi o ispirati dalle muse che tanto conforto diedero a Dante, riescono abilmente a smarcarsi da questa situazione riuscendo a offrire un prodotto musicale interessante, piacevole e degno di assoluta riverenza e anche rivalutazione.

Proprio per poter rivalutare A Higher Form Of Killing giunge propizia l’iniziativa della Lusitanian Music che ha pubblicato le ristampe del disco in questione più di altri due. Iniziative come queste sono assolutamente lodevoli perché consentono retroattivamente di dare il giusto lustro a una band che probabilmente non ha goduto delle medesime possibilità manageriali di altre, ma che comparate con queste non sfigura affatto. Volendo essere certosini nella ricostruzione della vita del disco, e per una correttezza intellettuale più che dovuta, bisogna però dire che la medesima operazione era stata concepita nel 2005 dalla Roadrunner Records che aveva ristampato il lavoro in una serie limitata di 1000 copie. Quindi onore al merito di queste due etichette che hanno inserito nei propri programmi musicali gli Intruder che da supplenti hanno la possibilità di ritornare in ruolo e di avere la loro bella chance di rivalutazione e considerazione anche dai Generazione Z perché, alla resa dei fatti, hanno tutte le carte in regola per starci e restarci nel mondo della Musica.

Il disco, in originale, presenta il limite della produzione, tipica di quegli anni, basti ricordare alla linea di basso inesistente nel già menzionato …And Justice For All, quindi chi vuole ascoltare qualcosa che faccia il paio a Youthanasia dei Megadeth sappia, aprioristicamente, che così non sarà; così come sarebbe errato aspettarsi la voce di James Hamilton precisissima e sempre perfettamente intonata e questo emerge dall’ascolto di Second Chance. Anche questo, comunque, contestualizzando l’album nel periodo storico in cui ebbe origine, viene perdonato; piuttosto della voce si apprezza la bellezza della timbrica e alcune linee vocali davvero belle, particolari e interessanti, tipo quella cantata nel brano Mr. Death. Per dirla in altri termini, e potrebbe anche apparire paradossale, bisogna partire da un postulato inscalfibile che dovrebbe rappresentare un principio discrezionale e indispensabile: per apprezzare la bellezza musicale la produzione rappresenta tantissimo, ma non è tutto.

A Higher Form Of Killing si configura come un album dai contorni del genere abbastanza sfumati in quanto l’impronta, come detto, è tipicamente Thrash Metal, ma che ospita bellissime puntate Speed, feroci fucilate Technical e qualche sprazzo Punk. Da questa “mescolanza di gran qualità”, per dirla alla Omar Pedrini in Bella Bambola, si possono apprezzare dei passaggi davvero caratteristici, belli e ben studiati dal combo americano, si pensi agli assoli di The Martyr e di Genetic Genocide; oppure ai cori, onestamente un canone tipico del genere, ma qui presenti della giusta misura a tal punto da non risultare mai come un qualcosa di sovrabbondante e quindi di stucchevole e scontato. A proposito di canoni tipici emerge per esempio in Genetic Genocide un rallentamento di tempo quasi a voler far rifiatare l’ascoltatore per prepararlo a quello che verrà dopo.

A proposito di questo brano, oltre all’apprezzabile lavoro sui tom che strizza il lavoro a quanto fatto dai Sepultura qualche anno dopo, emerge una tematica molto particolare che guarda a un mondo distopico, come la fortunata corrente letteraria tenuta in piedi da assoluti capolavori come Il Mondo Nuovo – Ritorno Al Mondo Nuovo di A. Huxley, e che sovente non è distante da quello che, profeticamente, avviene nella realtà. È il caso di ricordare la prima parte del testo che recita così: “You feel so safe, sealed in your room, Among the poisons, you think you are immune. A broken vial, a mislaid hand. That’s all it took – to start – the end of man”.

Nel riferimento ai canoni del tempo è apprezzabile l’inizio della già citata Second Change che si apre a mo’ di ballata, proprio come era tipico fare tra gli anni ’80 e gli anni ’90 e, così come era tipico inserire tra i brani dell’album una cover, anche gli Intruder, nati con il nome di Transgresser, non dribblano tale usanza inserendo la bella canzone dei The Monkees, band statunitense attiva tra il 1968 e il 1971, (I’m Not Your) Stepping Stone. La presenza di questo brano rappresenta, probabilmente a livello inconsapevole per la band, una spia di quanto la loro personalità sia spiccata e marcata perché, anche un ascoltatore ignaro dell’esistenza del brano in questione, capisce subito che trattasi di una cover, perché lontana dal canone identificativo degli Intruder.

La formazione che suonò A Higher Form Of Killing, composta dal già menzionato Jimmy Hamilton (voce), Arthur Vinnett (chitarra), Todd Nelson (basso), John Pieroni (batteria) e Greg Messick (chitarra), ha visto, purtroppo, la dipartita di quest’ultimo nel corrente anno (2020).

Mettendo in play il lettore, il disco si apre con la opener Time Of Trouble che riporta in musica una cernita radiofonica in cui si cerca di sintonizzarsi sulla stazione radio giusta, onestamente questo non è proprio il biglietto da visita più originale, ma è già alle porte The Martyr, ovvero un inno alla devastazione. Qui le chitarre sono sporchissime e costruiscono riff a profusione sempre più veloci e guerrafondai con giochi di tom annessi; in questo brano si presenta una piccola sintesi delle caratteristiche del movimento musicale rappresentato dagli Intruder. Da manuale, per certi versi, la voce di Jimmy Hamilton che si rivela quanto mai indovinata ed espressiva, anch’essa in effetti dal timbro tipico di quegli anni che furono; essa rappresenta un mix vocale ben riuscito tra Mike Howe dei Metal Church (inevitabile l’accostamento a Blessing In Disguise, guarda caso uscito proprio lo stesso anno) e Carl Albert dei Vicious Rumors di Digital Dictator (1988) per l’uso del graffiato. La strofa corre velocissima per poi trasformarsi in un mid tempo davvero incalzante e pieno di groove. Diciamo subito che alle chitarre c’è del lavoro ben fatto, molto ricercato ma allo stesso tempo “istintivo e concreto” (Kerry King docet); sono notevoli le lead centrali in tapping in pieno stile Chuck Schuldiner. I cori rendono il tutto più appetitoso e senza dubbio più orecchiabile.

L’intro ai tamburi di Genetic Genocide sembrerebbe rubato a My Misery delle Phantom Blue (o forse sarà il contrario, dato che Built To Perform uscirà 4 anni dopo) ma non è certo una ballad. Adatto ad aprire un live, il brano è una fucilata. Vecchia scuola “Kill’em All” nelle ritmiche e i contrasti di terza alle chitarre sono la ciliegina sulla torta. Anche qui nella parte centrale si cerca poi di rallentare il tiro anche per rendere più vario quello che è un brano che altrimenti avrebbe detto già tutto. Il solo è trascinante, non impeccabile, ma senza dubbio adatto al contesto e coerente il più possibile col resto della song. Questo è l’unico episodio in cui emerge il lavoro di Todd Nelson al basso, soprattutto nella parte iniziale della canzone. Non brilla certo per definizione la produzione di Tom Harding e Brad Jones, come già detto siamo su livelli di sufficienza e la cosa strana è la poca riverberazione del rullante che, in quel periodo, e nei dischi già citati precedentemente, era di gran lunga una caratteristica importante. Il suono in generale è inscatolato e in più la punta della cassa è a tratti fastidiosa; tuttavia il mix rende giustizia a ciascuno strumento rendendolo definito per quanto “non godibile all’ascolto”.

Second Chance è la ballad che molti aspettavano, ce n’è sempre una, come già scritto, in produzioni di questo calibro. Poco felice, a dir la verità, il tema iniziale (o il solo vero e proprio, data la quantità di note sparse) e ben si scorge qualcosa che più tardi i Testament saranno in grado di sviluppare molto meglio in termini di intro (e tutto il resto) con The Legacy (da Souls of Black del 1990). Si fa notare John Pieroni alla batteria, dove sfoggia incastri notevoli e una musicalità di fondo decisamente apprezzabili. Parte la sfuriata nella seconda parte del brano e diventa tutto molto più spedito. Semplici eppure azzeccatissime le terzine ai tom per spezzare la monotonia Thrash ed esplorare nuovi orizzonti tonali. Jimmy Hamilton gioca a fare Tom Araya questa volta, i continui cambi di tempo gli consentono questo ed altro. Bellissima la sua performance fino a questo momento.

È la volta di (I’m Not Your) Stepping Stone, storico brano dei The Monkees dove alle lead vocals troviamo lo stesso drummer John Pieroni. Questa canzone sembra fuoriuscita da una jam di Mr. Jeff Waters e soci (vedasi anche il timbro vocale), ma è un semplice episodio di puro divertimento. Molto distaccata dal sound violento e tipicamente “minore” dell’intero platter, complice anche il passaggio del microfono come testimone. Decisamente una scelta stilistica un po’ fuori dalle righe e tutto sommato una prestazione senza infamia e senza lode.

Ci si ricompone con Killing Winds, brano Speed e senza fronzoli che ricalca quanto lasciato prima della cover. Chorus molto “Intruder”, compresa la caratteristica di non riuscire a capire bene il testo se non lo si legge con attenzione: i versi corali “Now the time is here, You have lots to fear, Now the time has come, There’s nowhere to run” sembrano buttati lì con la rabbia in corpo e la delusione per un progresso già in atto che ci ucciderà tutti (da testo). Arthur Vinett e Greg Messick (deceduto in questo 2020 all’età di 55 anni come già anticipato) alle chitarre sono in perfetta simbiosi. Le rispettive parti sono articolate e piene di pathos. Il sound è purtroppo penalizzato dal mix come già detto; riuscire ad apprezzare il loro riffing è dunque arduo inizialmente, ma col tempo diventa assimilabile, specie contestualizzando il periodo e il livello tecnico dei loro contemporanei (da notare il finale in sweep picking prima della reprise). Siamo al punto più alto del disco, assieme alla successiva track The Sentence Is Death. Intro fuori dal comune per questa canzone che ricorda alcuni passaggi e sfumature contenuti in Peace Sells… But Who’s Buying? soprattutto riferite al drumming serrato e compatto. Si cambia subito registro perché il riff iniziale è un lontano ricordo.  Non si tratta di un brano che si fa ricordare dopo il primo ascolto, tranne che per l’ennesima prestazione vocale di Jimmy Hamilton. Trattasi del pezzo più lungo del disco, elaborato e vario. Finale in break e parte Agents Of The Dark (M.I.B.). Curiosa la coincidenza nell’uso preponderante dell’espressione Men In Black utilizzata qualche tempo dopo da Lowell Cunningham e Sandy Carruthers per la loro famosa serie a fumetti. L’intro, costruito su tonica-sensibile-terza minore, dà un aspetto violentissimo al tutto, i tempi serratissimi e le lead guitar molto “King-Hanneman” fanno tutto il resto. Continui break e cambi di tempo sono sempre dietro l’angolo, si nota quanto il lavoro del combo sia passionale e sincero. Il chorus in tipica struttura domanda-risposta è comunque senza dubbio trascinante.

Non vi è nulla lasciato al caso in questo disco, parlando ovviamente della stesura dei brani. Ogni sezione sembra derivare dal cuore e dallo studio spasmodico sul proprio strumento. Atteggiamento dunque d’altri tempi, dove ci si rinchiudeva in rimesse o garage presi in prestito dal primo che passava per dar sfogo alla propria rabbia (musicale e non solo). È importante ricordare come la band in sede live (tantissimi i tour) ha sempre dato il meglio di sé confermando la loro attitudine On Stage.

La strumentale telefonata di Antipathy anticipa la chiusura del disco, poi è la volta di Mr. Death. Subito ci si accorge che probabilmente la mole interminabile di idee fino ad ora condivise dai nostri si sta via via esaurendo. Belle le parti soliste, seppur il volume dei soli di chitarre risulti davvero fuori luogo superando di gran lunga quello della voce o di tutto il resto (prerogativa questa di tutta la produzione in questione). Nulla di nuovo dunque, si conferma quanto affermato fino ad ora musicalmente parlando.

A Higher Form Of Killing si conferma dunque un disco piacevole, in grado di proiettare nel passato gli appassionati del genere e di farlo contestualmente riemergere nel presente come vivida testimonianza del panorama Thrash Metal che ha saputo consegnare capolavori eclatanti; l’album merita ancora un’altra possibilità per essere apprezzato e quindi per essere ricordato.

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