Recensione: A Race with the Devil

Di Abbadon - 7 Marzo 2004 - 0:00
A Race with the Devil
Band: Vanadium
Etichetta:
Genere:
Anno: 1983
Nazione:
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90

Non c’è molto da fare, se esiste un genere difficile da trovare, per quanto riguarda l’alta qualità della sua musica, questo è l’heavy rock (o Hard’n’Heavy, chiamatelo come vi pare). Molto difficile trovare una band che è arrivata alla quintessenza di questo genere che fonde le ritmiche e il dinamismo hard con il potenza e il sound greve del metallo pesante. E l’ascoltatore medio, preda della (comune) dannata esterofilia/esteromania che lo affligge, molto difficilmente penserebbe di prendere in considerazione una ricerca dell’apice di questa stile entro i confini nazionali. Farebbe male, perché proprio nella nostra madrepatria si è avuto uno di quelli che reputo gli zenith e una delle maggiori parabole dell’heavy rock. Sto parlando dei Vanadium, quintetto milanese che negli anni 80 (soprattutto la prima metà) fu davvero tra i primi per qualità di sound che le mie orecchie hanno finora potuto sentire. I Vanadium furono probabilmente l’unica band italiana che, almeno in parte, sfondò i canoni di esterofilia prima citati e si portò fuori dall’underground, con tour anche esteri, numerosi dischi eccetera. Insomma furono la bandiera del Rock italiano prima di Rhapsody, Lacuna Coil e compagnia bella. Questo fu possibile grazie a tecnica, passione e tanto tanto carisma dei singoli elementi della band. E queste caratteristiche secondo me si fondono e raggiungono la perfezione (che molti dicono sia in “Born to Fight”, io dico assolutamente no) in questo “A race with the Devil”, secondo album (dopo l’esordio dell’anno prima “Metal Rock”) dei 5, che vede la luce nell’anno di grazia 1983. La prima volta che l’ho sentito sono rimasto senza fiato, per quanto riguarda i contenuti musicali. Non c’è un baco che sia uno, tutte le 8 tracce presenti sono classe, melodia, brio, potenza e soprattutto tanta voglia di gasarsi e gasare il pubblico. Si fondono il tipico profumo della NWOBHM (che conobbe il fiore della sua esistenza poco tempo prima, la band mi ricorda un botto i primi Saxon) con alcuni elementi molto innovativi nell’heavy ma tipici nella decade precedente (vedi l’uso delle tastiere e alcuni notevoli stacchi melodici). Il quintetto è in stato di grazia e lo dimostra. Il vocalist Pino Scotto è in buona forma e trascina l’ascoltatore, devo però dire che dal vivo (almeno su quanto sentito sul live “On streets of Danger”) rende molto di più, con una migliore fusione fra la sua voce e il suonato. C’è però un sacco di carisma, e questo fa di Pino un ottimo comandante, che guida la truppa formata dal batterista Lio Mascheroni (cuore che ora torna in gioco, assieme a Scotto, con i Fire Trails), dal chitarrista al primo album (in Metal Rock era presente Carlo Asquini) Stefano Tessarin, veramente splendido alla 6 corde, dal tastierista Ruggero Zanolini e dal bassista Domenico Prantera. Come detto la musica sfornata è da palati raffinati, viene però diminuita in sede ascolto da una produzione che purtroppo secondo me non soddisfa. Questo è un vero peccato, perché fosse stata non dico 5 stelle ma quantomeno costante e su buoni livelli, ora staremmo parlando di un disco illegale. Ma già così ce n’è per tutti i gusti. Un riff esagerato ci introduce subito nello spaventoso mondo dell’opener “Get Up, Shake Up”, forse già la migliore song del platter (anche se se la gioca con diverse altre). Pezzo molto tirato, è un perfetto connubio tra la potenza, data come detto da un riffing esemplare e un ottimo basso sullo sfondo, e la melodia, che subentra dando tocchi di classe con le tastiere. Eccellente anche l’assolo, che mostra tutti la bravura di Steve Tessarin, chitarrista maiuscolo. Si prosegue sullo stesso tono con “I Gotta Clash with you”, mid tempo molto forzato e pressante, nonostante la velocità molto inferiore a prima. Anche qui riff ottimo (preferivo quello precedente), buona batteria a tenere saldamente i tempi, splendido refrain, molto aperto e che infonde una carica con difficili paragoni. Anche l’assolo, spettacolare nella sua pur potente ma gratificante melodia, è da sentire e risentire. Per terza viene la canzone più lunga e lenta di “A Race with the devil”. Aperta da un arpeggio bellissimo (come sempre la tastiera sullo sfondo regala un buon 40% in più dell’atmosfera), “Don’t Be Lookin’ Back” acquista potenza e deraglia nella maestosità con l’entrata in gioco del riff della 6 corde. Poi si ha semplicemente, a seconda dell’uso o meno della chitarra a mo di ritmica, un alternarsi di dolcezza e di possente forza. Le prime tre canzoni colpiscono talmente tanto da far risultare quasi stonata la pur ottima titletrack, che all’inizio è un manifesto all’insegna degli strumenti distorti, distorsioni che culminano nell’ennesimo riff sfrenato e da antologia. Sulla falsariga dell’opener, anche “A race with the devil” è velocissima e graffiante, ma con un fondo melodico che riequilibra le cose. Anche l’assolo è a dir poco spettacoloso, ma credo che rispetto a “Get Up Shake Up” ci siano meno tocchi di classe. Pace amen, lavoro comunque notevolissimo. Finita la title un drumming molto convinto ci porta nel cuore di “Running Wild”, elogio alla tecnica strumentale dei meneghini. Qui la guitar, all’inizio, fa davvero miracoli e regala emozioni a non finire. Non che sia da sola, in quanto tutti quanti (batteria prima e tastiera poi in primis) la supportano benissimo lungo lo scorrere del mid-tempo, e questo non fa altro che fortificare una prestazione già più che solida. Arpeggio iniziale e coretto (!!!) sono gli ingredienti che aprono “Fire Trails” che, non me ne vogliate, è la track che gusto di meno in questo album. Per carità è bella, mid tempo ritmatissimo ma che alla lunga mi sembra abbastanza spezzettato e anonimo. Sarà solo una mia impressione, ma tant’è. Andiamo molto meglio con la successiva “Outside of Society”. Solita gran introduzione (che gran Zanolini!) che sfocia nel brano più veloce di tutto il lavoro. Da sottolineare la grande prova vocale di Scotto, la migliore fra le otto (magari perché a suo agio nella frenesia), gli assoli (quello buonissimo di tastiera e quello micidiale di chitarra) e un refrain orecchiabile e di gran gusto. La chiusura è, come da copione verrebbe da dire, sontuosa, e risponde al nome di “Russian roulette”. Attaccata da una tastiera virtuosa e da schitarrate molto aperte, che danno una sensazione di grandezza, questa strumentale si evolve in una successione di riff aggressivi e, manco a dirlo, ottimi, che regalano, assieme a pregevoli cambi di tempo, le ultime note e gli ultimi piaceri di un lavoro davvero esaltante. Ripeto, peccato per la produzione (che ne voto finale toglie un buon 5/6 punti alla mia valutazione, giusto per essere chiari), ma questa è classe a quintalate, testimoniante che la band avrebbe dovuto avere ben altro (nonostante ne abbia avuto un po’) successo. E se solo mi viene la folle idea di pensare a un remastering di questi dischi, con l’ausilio di tecnologie moderne, non vado in brodo di giuggiole, di più.

Riccardo “Abbadon” Mezzera

Tracklist :
1) Get Up, Shake Up
2) I Gotta Clash With You
3) Don’t Be Looking Back
4) A Race With The Devil
5) Running Wild
6) Fire Trails
7) Outside Of Society
8) Russian Roulette

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