Recensione: A Real Live One

Di Ottaviano Moraca - 17 Marzo 2016 - 22:08
A Real Live One
Band: Iron Maiden
Etichetta:
Genere: Heavy 
Anno: 1993
Nazione:
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72

Recensire un live non è mai facile. Lo è ancor meno se si tratta di una band del calibro degli Iron Maiden. Chi sono io per giudicare delle leggende viventi?!?! Con questo spirito carico di dubbi mi appresto all’ascolto. Intanto rifletto sul fatto che purtroppo le logiche commerciali del music business premono anche su di loro, quindi il timore che “A Real Live One” non tenga il passo del precedente lavoro dal vivo -l’immenso “Live After Death”– effettivamente è concreto. E l’ansia diventa paura leggendo i titoli dei brani: tutti scritti tra “Somewhere in Time” e “Fear of the Dark” ovvero gli ultimi lavori perchè, a quanto pare, per i pezzi storici dovremo aspettare un secondo CD di prossima uscita intitolato “A Real Dead One. Così si addensa anche lo spettro di una manovra spremi-fans imbastita sull’onda emotiva generata del recente annuncio dello split da Bruce.

Prime note e come sempre si viene pervasi dall’emozione che solo gli Iron e pochi altri sanno regalare… se chiudo gli occhi mi pare di essere lì… di poterli vedere, quasi toccare: energici, carismatici, geniali, sregolati, divertenti… come sempre. I brani sono eseguiti perfettamente, ma non sempre identici alla versione da studio, ma questo è tutt’altro che un problema. La professionalità di un musicista si vede anche nell’impegno che mette nel riarrangiare i propri lavori in ottica live. La bravura invece nell’abilità di improvvisare davanti al pubblico. E’ difficile capire dal CD dove finisca l’una e dove inizi l’altra, ma di sicuro si apprezza che gli Iron non difettano sotto nessuno di questi aspetti. I brani scorrono fluenti e adrenalinici, ben suonati, ben arrangiati, ben registrati e complessivamente il lavoro risulta assolutamente pregevole.

Si inizia con “Be Quick or Be Dead” a orecchio eseguita ancora più velocemente che in studio. Diciamolo: questo brano non è uno dei migliori composti dai Maiden ma bisogna ammettere che svolga egregiamente la sua funzione di opener del disco. Praticamente la sassata in faccia che ci voleva prima di lanciarci in una più articolata “From Here to Eternity” che, se su disco non aveva mai esaltato, in sede live guadagna quello che le mancava in studio, ovvero quel piglio grezzo e viscerale che la rende davvero pregevole. Da qui si abbandona l’ultimo lavoro e si torna ai classici iniziando con “Can I Play with Madness” che viene riproposta come ci si aspetta e come si conviene, cioè in maniera superba. Anche questo brano guadagna tantissimo in sede live tra le evoluzioni strumentali di tutta la band e i cori del pubblico, che poi si merita un po’ di respiro con la più cadenzata “Wasting Love”. Ottimo brano e ottima esecuzione anche se spezza un po’ il ritmo del CD che finora aveva “tirato” davvero forte. Scelta ineccepibile, anche se la ricerca di questo effetto, sicuramente voluto, non convince appieno. A maggior ragione perché subito dopo il ritmo si alza nuovamente alle stelle con “Tailgunner”, che rappresenta degnamente “No Prayer For The Dying”, nonostante questo sia obiettivamente il punto più basso del disco: niente da eccepire nè in termini di esecuzione, nè sul pezzo in generale, ma il risultato finale non regge il confronto con quanto espresso prima e con quanto seguirà subito dopo. Con “The Evil That Men Do”, infatti, ci siamo di nuovo e atmosfera ed energia si fondono in questo pezzo splendidamente eseguito, che trascina anche il pubblico con un coro da pelle d’oca; per lanciarci poi nella lunga e articolata “Afraid to Shoot Strangers” con cui torniamo all’ultima fatica in studio. Siamo di nuovo al cospetto di un gran bel pezzo, reso molto bene e con un crescendo micidiale enfatizzato ancora di più da una sezione chitarre in grande spolvero. Non che finora si fosse risparmiata, ma fa davvero la differenza qui e su “Bring Your Daughter… To the Slaughter” che trascinante, matta e irriverente, nell’esecuzione dal vivo è ancora più fuori dagli schemi rispetto alla versione in studio, guadagnando punti in più. Segue la lunga “Heaven Can Wait” che, dopo un inizio un po’ piatto, si fa perdonare con il coro che coinvolge tutto il pubblico. Di nuovo i chitarristi sugli scudi. Arriviamo così a “The Clairvoyant”, che nonostante la buonissima esecuzione non riesce a risultare altrettanto esaltante come i tre brani che l’hanno preceduta, tuttavia si può perdonare un piccolo calo in vista del gran finale con la fenomenale e articolata “Fear of the Dark”: un capolavoro magistralmente eseguito che faceva già paura nella versione in studio, ma che dal vivo supera ogni aspettativa lasciandoci a bocca aperta. Più di così non si può chiedere e abbiamo la conferma che… gli Iron sono sempre gli Iron!!!

E’ così che ogni paura viene dissipata e posso ritenermi soddisfatto. Certo, avevamo tutti fatto la bocca ad un prodotto di un livello ancora superiore -il già citato “Live After Death”– però anche questo “A Real Live One” non delude affatto e quando sarà completato dalla sua seconda parte –“A Real Dead One”– potrebbe competere quasi ad armi pari con il predecessore. Ritrovata la tranquillità di chi ha dovuto affrontare un esame e tutto sommato ne è uscito bene, posso predispormi serenamente all’attesa di questo secondo capitolo che, se tanto mi da tanto, diventerà un altro grande classico nella discografia degli Iron Maiden.

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