Recensione: Above All Else
Alla prima esperienza su full-length, i californiani Derogatory, nati nel 2010 dal chitarrista/cantante Ordonez e dall’altro ‘sei corde’ Joe Viwatkurkul, mettono in mostra (senza risparmiarsi) quelle che sono le loro qualità migliori: un suono old-school che oscilla tra Entombed, Death e i primi Morbid Angel. “Above All Else” riprende in toto il primo demo della band (omonimo) datato 2011, con i suoi tre brani Immortal Divine, Cryopreservation e Cenotaph, ai quali ne affianca altri sei per racchiudere i suoi 39 minuti in una prova d’altri tempi.
E si, perché il sound e la voce gutturale e gravissima di Ordonez riportano in mente i primi anni ’90 in tutto e per tutto, dal tipo di composizione scelta per i brani alle strutture e i ‘materiali’ usati. Non fosse per qualche breve inserimento di tempi dispari (“Immortal Divine” che non casualmente riporta in mente due titoli di altrettanti capolavori di Azaghtoth e soci: “Immortal Rites” e “Pain Divine”) potremmo tranquillamente confondere presente e passato.
E non solo il titolo ritorna spesso sulla band floridiana; a voler citare la prima raccolta di racconti del re dell’horror Stephen King “A Volte Ritornano”, troveremo estratti e citazioni un po’ dappertutto, come nel mid-tempo “Foretold in My House Of Séance”, con Coyoton che probabilmente paga il dazio più pesante nei confronti di Pete “Commando” Sandoval, soprattutto nell’uso e nel suono della doppia cassa. Le accelerazioni improvvise e gli ‘spezzamenti’ di tempo danno comunque una buona impressione generale, anche se con materiale trito e ritrito, usato da centinaia di act nel corso di due decadi.
Lo stesso materiale è riscontrabile in “Cryopreservation”, che alterna sezioni dritte ad altre dispari. Le chitarre sono a metà strada tra Ulf “Uffe” Cederlund e i fratelli Hoffman, naturalmente con le dovute differenze, riscontrabili maggiormente in brani come “Cenotaph” e “Into The Depth of Time”, mentre la conclusiva “To Escape What Is Now” va a venerare i Death con le sue scalate prog che non danno punti di riferimento, se non temporanei. Le chitarre si battono dei soli che inframezzano un riffing troppo affine a pietre miliari come “Human” e “Individual Thoughs Patterns”, con l’unica differenza che la voce non graffia in registri vicini a Chuck ma resta nel sottobosco. L’arpeggio paranoico in clean, una sorta di deja vu di quello nell’Intro iniziale, ci lascia con la sensazione di aver rivissuto una fase importante della nascita del death metal, e nulla di più.
Perché se i quattro di Pico Rivera dimostrano di essere ottimi esecutori e conoscitori della prima scena death metal, altrettanto non possiamo dire sulle capacità di riuscire a staccarsene, imprimendo una loro personale impronta. Vediamo se col tempo prenderanno coscienza dei propri mezzi, se non altro per colmare questa lacuna e trovare una loro identità.
Vittorio “versus” Sabelli
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