Recensione: Alchemical Warfare

Di Matteo Pedretti - 16 Gennaio 2021 - 5:55
Alchemical Warfare
Etichetta: Metal Blade Records
Genere: Doom 
Anno: 2021
Nazione:
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83

Il 19 aprile 2013 ebbi la fortuna di assistere al debutto dal vivo dei Dread Sovereign, formazione Doom irlandese capitanata da Alan Averill, frontman dei Primordial. La cornice era quella del Roadburn Festival di Tilburg: la sera precedente Nemtheanga (nome di battaglia di Averill) si era esibito con la sua band principale in un formidabile headlining show sul Mainstage, mentre l’esibizione dei Dread Sovereign si tenne alle due del pomeriggio presso il più intimo Het Patronaat, una sala concerti ricavata nei locali del retro della chiesa di Tilburg (purtroppo recentemente riconvertiti a showroom). Prima assoluta del nuovo gruppo di un artista ammirato, musica inedita, location unica: un concerto magico insomma…

Negli stessi giorni i Dread Sovereign pubblicavano, via Roadburn Records, l’EP di debutto “Pray to the Devil in Man”, a cui seguirono i full lenght “All Hell’s Martyrs” e “For Doom the Bell Tolls”, usciti rispettivamente nel 2014 e nel 2017 per la label tedesca Ván Records. Dopodiché l’ingresso nel roster della Metal Blade Records di Brian Slagel che il 15 gennaio ha dato alle stampe “Alchemical Warfare”, il terzo LP dei Dubliners.

Se il primo EP e il successivo album sono classificabili come ottime release, lo stesso non si può dire per “For Doom the Bells Tolls” che, costituito da materiale di per sé valido, con soli tre nuovi brani, due brevi interludi strumentali, una cover (“Live like an Angel, Die like a Devil” dei Venom) e una durata complessiva di circa 35 minuti, appariva debole nella veste di full lenght. A quattro anni di distanza, però, i Dread Sovereign tornano più in forma che mai. Il template entro cui si muovono le nuove composizioni è ancora quello del Doom Metal, ma rispetto ai lavori precedenti sono rintracciabili più uptempo che si rifanno ai filoni più oscuri della NWOBHM e dello Speed Metal, conosciuti come First Wave of Black Metal. Inoltre il nuovo materiale conferma, ancora una volta, la grande passione di questi musicisti per gruppi come Motörhead e Hawkwind.

Dopo la maledizione lanciata dalla intro “A Curse on Men”, che sprofonda l’ascoltatore nel livido abisso di “Alchemical Warfare”, si procede con un equilibrato avvicendamento tra pezzi che alternano parti piuttosto veloci a cupi rallentamenti ed altri più classicamente Doom. Al primo gruppo appartengono “She Wolves of the Savage Season”, “Nature Is the Devil’s Church” e “Devil’s Bane”, in cui sezioni ritmicamente sostenute di scuola Venom, Bathory, Hellhammer e Celtic Frost lasciano spazio, con naturalezza e gradualità, a decelerazioni pervase da un’oscura psichedelia.

Poi ci sono i pezzi più propriamente Doom, interessanti anche perché piuttosto diversi tra loro. “The Great Best We Serve” incede con passo lento e battagliero, a tratti epico. La lunga introduzione Heavy Psych di “Her Master’s Voice” si evolve in quello che è invece un brano fondamentalmente Rock, con la voce che si fa spazio negli spazi lasciati liberi dai riff, ritornelli di grande presa e un bell’ assolo finale. La conclusiva “Ruin upon the Temple Mount” inizia con un’atmosferica sezione strumentale a cui subentra un Traditional Doom in cui le linee vocali di Alan passano da registri aggressivi (con uno scream tipico dei suoi lavori con i Primordial) ad altri dal pronunciato sapore evocativio. Nelle versioni CD e Digital c’è spazio per un’interpretazione di “You Don’t Move Me (I Don’t Give a Fuck)” dei Bathory che, non discostandosi dall’originale, colpisce come un dritto sul muso.

L’effetto combinato del buon lavoro di registrazione e della produzione asciutta veicola un suono sì potente, ma ricercatamente old school e spigoloso, come se la band volesse ricreare l’immediatezza di un’esperienza live. In continuità con il passato, anche questa volta il titolo dell’album si basa su un gioco di parole che richiama il nome di un grande classico del Metal (“Chemical Warfare” degli Slayer), così come prosegue la tradizione di ritrarre nell’immagine di copertina i tre componenti della band, che per l’occasione vestono i panni di eccentrici alchimisti.

Con questo disco i Dread Sovereign mettono a segno quella che è probabilmente la migliore produzione della loro carriera: pur rimanendo essenzialmente Doom, “Alchemical Warfare” si dimostra capace di sperimentare formule diverse che, se da una parte contribuiscono a mantenere interessante la proposta, dall’altra rendono omaggio a quelle band che hanno esercitato un’enorme influenza sullo sviluppo dei sottogeneri più estremi del Metal.

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