Recensione: Altars of Devotion

Di Daniele D'Adamo - 19 Marzo 2017 - 16:34
Altars of Devotion
Etichetta:
Genere: Death 
Anno: 2017
Nazione:
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60

Cryptic necromantic black death metal.

Come si può notare, la confusione sul fatto che o è black o è death è una prerogativa internazionale. Tuttavia, prendendo per buono il fatto che gli sconosciuti – nel senso che la lineup è accuratamente celata agli occhi del mondo – Harvest Gulgaltha suonino death metal, seppur fortemente contaminato dal black, la definizione che loro stessi si sono dati calza a pennello.

“Altars of Devotion” è il primo figlio di una scellerata covata, perlomeno si spera per i Nostri, ma in esso ci sono, difatti, tutti gli elementi per inquadrarlo in uno stile assolutamente unico. Death metal arcaico, primordiale, rozzo e involuto. Ovviamente, frutto di un ben preciso disegno, volto a rendere il sound una specie d’immenso coagulo di mota. Indistinta nei colori, amorfa nelle propaggini sonore che, come ammalianti sirene, avvolgono il coraggioso ascoltatore per stritolarlo, soffocarlo, seppellirlo.

Più che song, ‘A Vision Unleashed’ e compagnia cantante sono delle enormi, strascicate, gelatinose emissioni sonore che paiono provenire dalle più lontane e maleodoranti cripte, per l’appunto. Le quali, durante il loro percorso, inglobano in sé tutto ciò che incontrano: dagli scheletri alla carne, dalla terra all’aria. Guidate dall’arte negromantica del vocalist, cantore dell’orrido; nocchiero di un sound catacombale, cupo, tetro, vibrante. Ricco, pure, d’inserti ambient puzzolenti come cumuli di cadaveri in decomposizione (‘Blood of Creation’).

La ridetta sua unicità, quindi, non può che essere che un punto a favore dell’ensemble di Phoenix, giacché appare davvero arduo riuscire a metter giù dei nomi per evidenziare degli esempi. L’idea di partenza, pertanto, è buona, poiché conduce alla piena definizione di un marchio di fabbrica distinguibile con facilità. Tuttavia, lo stesso pregio diviene un difetto, poiché impedisce ai brani di diversificarsi con decisione gli uni dagli altri. Se si riesce cioè a memorizzare “Altars of Devotion” nel suo complesso, cioè, è al contrario praticamente impossibile – a meno di non mandare letteralmente il tutto a memoria – trovare delle congrue differenze fra ‘Serpentine Path’ e ‘Necromantic Calling’, per esempio.

Il ritmo, a parte rari istanti in cui si agitano i blast-beats (‘Ritual of Traditional Sacrifice’), non aiuta, poiché assestato su un sempiterno mid-tempo. Efficace a comprimere il malloppo sonoro nell’informe massa che è, ma inevitabilmente invitante ad accogliere un po’ di noia che, sin dai primi ascolti, fa capolino da qualche sarcofago semiaperto.

Non si può che apprezzare, quindi, il tentativo di creare qualcosa diverso dal solito cliché old school, ma nemmeno chiudere un occhio su un songwriting piatto e ripetitivo.

Daniele “dani66” D’Adamo

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