Recensione: Arrival

Di Emiliano Sammarco - 16 Settembre 2015 - 0:30
Arrival
Etichetta:
Genere: Hard Rock 
Anno: 2015
Nazione:
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65

Il secondo album dei The Vintage Caravan era molto atteso dagli appassionati di classic rock visto soprattutto l’ottimo debut a nome Voyage (2013). L’ala protettrice della Nuclear Blast è li ancora una volta a fare da mamma chioccia a questi giovani ragazzi islandesi, che nel frattempo hanno evoluto il loro sound, macchiandolo di stoner, grazie a chitarre gonfie di rabbia e sporche di sabbia.

Arrival, prodotto da Axel Arnason e inciso in uno studio di registrazione ricavato da una vecchia sala da ballo, è senza ombra di dubbio un buon prodotto, suonato impeccabilmente da una band sicura e consapevole dei propri mezzi. Ma c’è qualcosa nella musica dei nostri che ancora non mi convince appieno. Sarà per la presenza di alcuni passi falsi in scaletta che fanno inevitabilmente calare l’attenzione nei medesimi passaggi, sarà per la voce di Óskar Logi che anche se tecnicamente ineccepibile, non riesce a toccare nel giusto modo le mie corde emotive, in alcuni momenti sembra quasi di sentire soluzioni forzate, fatte entrare con forza in un letto classic che cerca disperatamente di sembrare stoner in alcuni suoi punti focali,  irruente e graffiante – ne va dato atto –  ma a volte poco incisivo, sembra sempre manchi quell’ultimo passaggio in grado di trasformare una splendida azione, nel gol del vantaggio. L’album è tuttavia innegabilmente sufficiente, ma viste le potenzialità che i nostri sembrano avere è decisamente poco per accontentare il mio palato perennemente affamato.

Ed è così che l’opener Last Day of Light risulta essere troppo prolissa nel voler esporre le sue doti, i suoi oltre sei minuti scorrono via senza troppi sussulti, inceppati negli ingranaggi poco oleati di un songwriting dalle tinte non molto chiare, almeno in questo caso. Meglio, molto meglio quando i nostri puntano all’immediatezza, vedi l’ottima Monolith, stonerizzata e marcia quanto basta per poter colpire il bersaglio grosso, grazie anche ad un ritornello che si stampa in mente al primo ascolto. Ottima anche Eclipsed che punta invece su ricami psichedelici in crescendo. Proseguendo l’ascolto, Babylon non riesce a lasciare il segno, così come l’effimera Sandwalker, diverso è invece il discorso per la bellissima Carousel e la lunga ed epica cavalcata finale a nome Winter Queen. Ma tutto l’album vive di sussulti, di salite e discese troppo brusche e instabili per poter essere considerate sicure.

L’artwork infine, curato dal bravissimo David Paul Seymour riesce a catturare la natura poetica dei nostri, imbrigliando quel  fascino arcano e senza tempo che questo genere musicale possiede. Ma ripeto mi sarei aspettato molto di più, soprattutto nel cantato, in cui di sicuro un interpretazione più in your face – che compare solo a tratti – avrebbe giovato all’intero lavoro, che come detto, non risulterà un piatto principale da ristorante super stellato, ma nemmeno un piatto da mensa cittadina. Solitamente la terza prova è sempre quella decisiva per capire dove una band potrà arrivare, ed è a quella che io voglio rimandare il mio definitivo giudizio sui Vintage Carvan, islandesi con la testa ghiacciata nei fiordi di casa, ma col cuore caldo, sepolto nel deserto settantiano.

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