Recensione: Ascension

Di Alessandro Marrone - 8 Aprile 2020 - 0:00
Ascension
70

Uno dei momenti più difficili nella vita di una band è la scelta del nome e guarda caso è una situazione che va affrontata ancor prima di cominciare, quando la maturità artistica è un lontano miraggio e l’identità musicale stessa è soltanto un’idea ancora racchiusa nel ventre della creazione. Ci sono nomi scontati, come del resto ci ha insegnato la storia, dove svariati decenni fa si era anche soliti andare a pescare a caso tra le pagine di un atlante, ci sono acronimi di ogni tipo, accostamenti più o meno scontati e poi quei lampi di genio che sembrano talmente assurdi che a nessuno verrebbe da pensare di utilizzarlo come identificativo per la propria band. Del resto quanti di voi avrebbero annuito nel momento in cui i vostri compagni di band avessero tirato fuori la proposta di farvi conoscere dal mondo come “Guarda gli uomini che cadono”, dove il verbo cadere assume un significato ben più introspettivo della semplice morte corporea, andando ad attingere anche a quel valore spirituale ben presto impregnato nel sound del quintetto francese passato dalle scuderia de Les Acteurs De l’Ombre Production alla (sempre francese) Season Of Mist.

A distanza di cinque anni dal precedente Exile arriva il terzo e conclusivo capitolo, intitolato Ascension e che rappresenta sia l’epilogo che un nuovo principio, esattamente ciò che e i Regarde Les Hommes Tomber – non suona affatto male – intendono mettere in musica. Non un black metal tradizionale, tantomeno un post black dal quale sempre più band cercano di attingere per allargare la propria offerta musicale, ma anche per identificare maggiormente la propria musica. Tutto questo non è soltanto uno dei tanti ricamati preamboli che leggiamo nelle cartelle stampa che corredano i promo, ma quello che si percepisce sin dalle prime note del disco e dove il compito di introdurre la narrazione spetta a A New Order. Le caratteristiche principali per rientrare nella categoria black metal ci sono tutte: velocità, chitarre affilate, una voce che grida maledizioni di ogni tipo, un costante alone di buio che sembra aleggiare sopra il luogo di un ipotetico sacrificio. In mezzo alle tenebre, l’altissima fiamma ritratta nella pregevole copertina rappresenta l’essenza quasi rituale di Ascension, un disco che non ha paura di prendere le distanze da un cieco assalto ai cinque sensi e assumere invece le sembianze di un annichilimento emotivo e quindi più razionale, più maturo e logicamente molto efficace.

 

Fatta eccezione per l’intro (L’Ascension) e un altro breve intermezzo (La Tentation), le altre sei tracce si protraggono ampiamente e toccano tutte la soglia degli 8/9 minuti, offrendo a ciascuna di esse la capacità di trascinare l’ascoltatore negli oscuri viaggi toccati dall’intero album, avvalendosi di un fattore atmosferico (The Renegade Son), che viene ben affiancato ad una buona dose di ispirazione in quanto a compattezza strumentale anche quando si predilige un tipo di attacco più diretto e brutale (The Crowning). I RLHT dimostrano però di essere capaci anche nello scendere più a fondo quando si toccano tasti più emotivamente destabilizzanti, prendete per esempio la maestosa Stellar Cross e quel suo costante e malinconico arpeggio che delinea il background per quello che senza dubbio è uno dei brani più incisivi dell’album. Come anticipato poche righe sopra, la fine rappresenta un nuovo inizio, una caduta una nuova ascesa ed è così che infatti si chiude il rituale, con la conclusiva Au Bord Du Gouffre (sull’orlo dell’abisso) che mantiene le stesse sembianze diffuse fino ad ora e anzi caricandole ulteriormente con un piglio non soltanto atmosferico, ma quasi figlio di una accurata fusione con il gusto più death (metal, s’intende) del quintetto transalpino.

Tirando le somme ci troviamo di fronte ad un lavoro di notevole livello, che se nei primi ascolti vi invoglia ad approfondire il viaggio con i Regarde Les Hommes Tomber, dopo averlo passato in rassegna svariate volte non riesce a nascondere il limite dato da un’identità ben definita a livello di sound, ma non particolarmente capace di lasciare un segno profondo una volta che il sibilo nelle nostre orecchie giunge al termine. Sarà che ci troviamo in una fase di grande saturazione ed è sempre più difficile ritagliarsi il proprio posticino, anche in un genere che dovrebbe essere tutto fuorché popolare, o sarà perché nel momento in cui i RLHT giocano la carta del convenzionale (l’ultima canzone appunto) suonano troppo come un eco dei Behemoth. La strada è quella giusta, la trilogia si è conclusa e può quindi lasciare spazio ad una ulteriore evoluzione per una band che vale la pena tenere nel proprio radar.

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