Recensione: Ashes Of Life

Di Marco Tripodi - 24 Gennaio 2021 - 8:00

Cosa succederebbe se Danzig, Volbeat e Underground Fire facessero un tour assieme? Che per molti sarebbe l’occasione – più unica che rara – di vedere all’opera Elvis Presley, Jim Morrison e Johnny Cash. Di Glenn Danzig, Michael Poulsen e rispettive band già sappiamo, conosciamo le loro inclinazioni ed ossessioni in ambito musicale, ora è la volta degli svedesi Underground Fire, all’esordio discografico su Critical Mass Recordings con “Ashes Of Life“, forti di un artwork davvero cupo ed apocalittico, e dell’esperienza maturata dal leader Rob Coffinshaker con i suoi omonimi The Coffinshakers (ma anche con i Gehennah). Al chitarrista/cantante si uniscono gli sforzi di Andres Karlsson (Bay Laurel, Impression), Robert Schlyter (Haddock, The Soulshake Express), Edvin Norman (Mama Kin), che come risultante danno il sound enigmatico e magnetico degli Underground Fire. Dalle oscure profondità dell’Ade, un covo di maledetti e reietti che il mondo si è scartavetrato di dosso, sputandoli nell’anfratto più buio e remoto del sottosuolo, emergono le 10 tracce che compongono la scaletta di questo manifesto della fine dei tempi. Un album post rock, post vita, post speranze, un album talmente post da essere prossimo alla fine, mancano solo i quattro cavalieri dell’apocalisse ad annunciare il sipario calante al suono delle loro macabre trombe. Il modo più semplice e sbrigativo di classificare Coffinshaker e sodali dello Stige sarebbe quello di venderli come una versione irrobustita di Johnny Cash, soprattutto per la timbrica vocale di Rob che richiama vistosamente quella dello chansonnier dell’America più dolorosa, popolare (folk) ed afflitta, la voce degli sconfitti, degli ultimi, dei dimenticati (come i galeotti per i quali Cash andava a cantare nelle carceri).

Tuttavia esaurire la disamina a Cash sarebbe riduttivo, poiché se l’indubbio biglietto da visita dei nostri è senz’altro quello, le cose strada facendo si complicano. Arrivati alla quinta traccia in scaletta per esempio, “Summer Ends“, risuonano evidenti delle corde riconducibili agli AC/DC di “Hells Bells“. “I Wasn’t Made For This World” rischiara momentaneamente le nubi fosche, squillando di un rock che mescola Iggy Pop, David Bowie e persino qualche schitarrata degna dei Ramones. Lo scecheratombe non fa mistero delle sue influenze Sixties, lungo l’album si avvertono più o meno carsiche, e certamente arrivano tra capo e collo proprio in un pezzo come “I Wasn’t Made For This World”, che con il suo titolo pare proprio volerlo mettere in evidenza. Il sound degli Underground Fire è fuori dal tempo, retrò eppure allo stesso tempo attuale, per non dire persino futuribile, visto che ci conduce per mano (e a tradimento) verso la fine, sull’orlo del precipizio. “Haunt Me” improvvisamente rievoca lo spettro dei migliori Lynyrd Skynyrd, ricordandoci che Johnny Cash era un uomo del profondo sud degli Stati Uniti. Mescolate a quanto già scritto anche un humus nel quale battagliano i The Sisters Of Mercy, i Fields Of The Nephilim, i Lords Of The New Church e le atmosfere dei film di Quentin Tarantino e Robert Rodriguez, e sostanzialmente avrete un’idea abbastanza calzante del progetto Underground Fire. E’ proprio così, in questi solchi il fuoco cova “sotto”, si intravede ma soprattutto si “sente” sotto i piedi, ci cuoce lentamente ma inesorabilmente, ed in men che non si dica vi ritroverete orizzontali e incorniciati tra pareti di legnaccio squallido e bucherellato dalle tarme. E’ troppo tardi amici miei, Johnny Cash is coming to town ma voi siete finiti sei metri sotto terra troppo presto e vi perderete lo show. Maledetti fino all’ultimo.


Marco Tripodi

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