Recensione: Back On The Streets
Mordaci e risoluti come il mastino che campeggia sulla cover, Martin Kronlund (Gipsy Rose) e il cantante Mats Levén (At Vance, Therion, Candlemass) rispolverano i Dogface, monicker con all’attivo due album, “Unleashed” (2000) e “In Control” (2002). Il motivo? Approfittare della rinnovata vitalità del rock, per rientrare in scena e rivendicare un ruolo da protagonisti!
Questo l’obiettivo dell’ennesima fatica targata Dogface, intitolata programmaticamente “Back On The Streets”. Possiamo subito affermare che l’album non è altro che un concentrato di hard’n’roll vecchia maniera, sulla falsariga di David Reece, ospite d’onore che partecipa come backing vocalist al progetto.
A differenza però di “Compromise” del buon Reece, la componente metal è meno presente e, grazie all’inserimento di hammond e synts, il lavoro ha un retrogusto maggiormente orientato verso sonorità a cavallo tra gli anni settanta e ottanta.
Dopotutto, non è un caso che il platter si conceda il lusso di citare i pop-rockers Osmonds, coverizzando il loro singolo “Crazy Horses” (1972), una rilettura graffiante dove spadroneggia la voce spavalda di Levén.
Cover a parte, rivolgendo l’attenzione al platter vero e proprio, l’album ci accoglie con “Footsteps On The Moon”, dove Martin e Mats giocano con atmosfere dilatate, che avvolgono l’ascoltatore attorno alle spire di vibrati orientaleggianti, dinamismi a là Randy Rhoads e scale discendenti, trasmettendo una sensazione di tensione incombente.
La seguente “Can’t Face Tomorrow” rilancia la sfida, questa volta, con un veloce pattern, che trascina grazie a un refrain collaudato ma coinvolgente, dove Levén sfodera una voce a dir poco lancinante.
Il lavoro prosegue lasciando che le chitarre impastino l’ibrido rock di “Higher”: la band opta per alternare tempi lenti (con innesti di synt) a tempi più cadenzati, posti in rilievo da una voce più alta e veemente, che diventa ancora più penetrante e acuta nel ritornello (un inconfondibile modo per rendere al massimo dell’espressività il titolo della song).
Tornando a parlare di vecchie sonorità, non possiamo citare l’hammond di “The Fall”, che viene quasi schiacciato dall’entrata del duo basso-sei corde, per poi riaffiorare durante il ritornello, conferendo un retrogusto seventies curioso, per niente sgradevole. Nell’up-tempo andante le parti si invertono: inizialmente è l’hammond a dominare il playground strumentale; in seguito, le chitarre hanno di nuovo il sopravvento.
Il lato più heavy e adrenalinico del party risiede nei vibrati stridenti della title track, capace di sguinzagliare un basso che, assieme al drumming in rilievo, non da’ tregua mentre il chorus colpisce in un crescendo, piacevole surrogato tra Saxon e David Reece.
Prima del gran finale, Martin e soci cercano di variare la proposta con la tripletta “Fired”, “Get Up” e “Start A Fire”: “Fired” è imperniata su un basso minaccioso, da cui si evolvono voci corali più tenui ed evanescenti, le quali formano, con la possente ritmica e il prechorus, un contrasto interessante, senza però lasciare quel impact definitivo nella mente dell’ascoltatore.
“Start A Fire” inizia con rumori e si irrobustisce con un riff sincopato, dividendo la canzone tra ritmica cadenzata (scandita dalla batteria) e un pattern chitarristico veloce, concentrico nel sottofondo. Il ritornello è essenzialmente un elevato grido di Levén che si unisce ai backing vocals.
Tra “Fired” ed “Start A Fire”, i toni vengono mitigati da “Get Up”, aperta da un lisergico hammond, per poi risvegliare atmosfere americane con l’entrata delle chitarre: così non stupisce che il ritornello ripercorra la strada battuta da vecchie glorie dell’hard rock statunitense (Bon Jovi in primis), naturalmente il tutto condito con lo stile inconfondibile di Mr. Kronlund.
Chiude il lavoro la peculiare, per così dire, “Freaking Out”: una commistione di suoni lenti, chitarre sofferenti, cori elevati e sconsolati, miscelati alla voce di Mats, che cambia l’intonazione da tenue a forzata, quasi a sembrare dolorante. Manca qualcosa? Di certo un refrain più incisivo avrebbe giovato ad una canzone tutto sommato non male, che mostra il fianco nella sessione strumentale raffazzonata, la quale avrebbe potuto essere composta in modo più organico e meno spezzato.
Facendo un sunto della situazione, Martin Kronlund e compagni cercano con alterne fortune di rivitalizzare il vecchio hard con sprazzi vagamente hi-tech e un accostamento di soluzioni collaudate. Il risultato? Discreto ma nulla di eclatante.
Se le scelte musicali sono, tuttavia, opinabili, possiamo consigliare almeno a Kronlund e soci di fare una cosa: Martin cambia quel monicker al più presto!
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