Recensione: Black Death
Essendosi sotto-divisosi in parecchie varietà (brutal, technical, old school, djent, …), è giunto il momento del paradosso: come definire il death metal classico? Quello che, fedele agli stilemi primordiali stabiliti da Sua Maestà Charles Michael “Chuck” Schuldiner e cortigiani, si è evoluto con un semplice aggiornamento tecnico/artistico sì da restare al passo con i tempi?
Senza rispondere a quest’interrogativo, ci si può però riferire ai tedeschi Buried In Black per averne, di questo, un esempio concreto.
Nati nel 2008 ad Amburgo per mano di Ben Liepelt (ex-Mad Doggin) e Ron Brunke (ex-Nayled), i Nostri ci mettono relativamente poco (fine 2010) per giungere al loro primo contratto discografico, peraltro con una major come l’AFM Records. E, con essa, per registrare il primo full-length “Black Death” presso i Recorder Studio di Amburgo con il veterano “Bunker” a missare il tutto.
Così, “Black Death” – titolo semplice quanto efficace – , riporta un po’ di ordine stilistico fra tutti gli scalpitanti cuginetti sopra elencati; giusto per mettere le cose in chiaro sul significato di ‘death metal’. Peccato che, però, sia l’album stesso, a essere inorganico: il songwriting è sfilacciato, debole, e conduce a un insieme di canzoni anonime e, come sempre accade in questi casi, noiose. È come se ai Buried In Black mancasse ‘l’ultimo pezzo’, quello – ahimè – più importante: il talento compositivo. Il resto, analizzando con calma il platter, c’è tutto e, in alcuni casi, pure in abbondanza. La capacità esecutiva, in primis, irreprensibile nel suo buon livello qualitativo: Ron Brunke e compagni non sono certo dei musicisti di primo pelo, e ciò lo si ascolta in qualsiasi anfratto di “Black Death”. Una professionalità nel saper tenere in mano con dignità gli strumenti che va di pari passo con l’evidente, esteso retroterra culturale che giganteggia alle spalle del quintetto mitteleuropeo. Il loro sound, difatti, è pieno, profondo e avvolgente (non nel senso del groove metal, evidentemente…). Trattasi di un sound maturo, definito in ogni particolare, ben bilanciato in tutte le sue parti. Nulla da eccepire nelle linee vocali di Brunke, assestate su un growling rabbioso ben lontano dagli eccessi dell’inhale, con qualche puntatina scream che rimanda – come deve – al black metal degli Avi. Ottimo, addirittura, il guitarwork curato da Liepelt ed Etienne Belmar: un monumentale muro di suono disegnato con un senso architettonico non comune, equilibrato nelle componenti ritmiche e soliste. Nulla da dire, in negativo, nemmeno in merito alla poderosa sezione ritmica tenuta su dal basso di Torsten Eggert e dalla batteria di Sören Teckenburg: mai sopra le righe; copre con competenza, precisione e pulizia l’intervallo ritmico compreso fra lo slow-tempo e i blast-beats.
Forse un po’ troppo impastato il suono che, presumibilmente, acuisce la primigenia sensazione di ‘poco ordine’ nella successione delle singole canzoni. Trattandosi di una produzione non-underground, è certamente di un effetto voluto che, però, a parere di chi vi scrive, non ottiene l’effetto dovuto. Si potrà ascoltare “Black Death” quanto si vorrà, in sostanza, che, alla fine, ben poco di tutto il suo contenuto rimarrà nella memoria dell’ascoltatore. Con questo, il compito di citare qualche song che abbia quel quid in più che, invece, manca, diventa un’ardua impresa: l’oscura selva rappresentata dai pezzi del CD è caoticamente inestricabile ed è assai facile perdere la strada maestra.
Nel complesso, cioè, “Black Death”, è un album che può soddisfare una voglia superficiale di sana brutalità. Quindi, se s’intendesse scendere nei particolari, sarebbe preferibile passare altrove. Peccato, perché l’attitudine dei Buried In Black è sana e genuina ma, purtroppo per loro, vana a coprire le gravi lacune compositive e, pertanto, a raggiungere il giudizio di sufficienza.
Daniele “dani66” D’Adamo
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Track-list:
1. The Bait 3:19
2. Parasite’s Paradise 3:34
3. 7.405.926 5:02
4. One Life Left 3:24
5. A Vast Hereafter 3:40
6. Lest We Forget 4:04
7. Act Of Caprice 4:52
8. Godseed 6:09
9. Violand 3:37
10. One Ate Seven 3:50
All tracks 41 min. ca.
Line-up:
Ron Brunke – Vocals
Ben Liepelt – Guitar
Etienne Belmar – Guitar
Torsten Eggert – Bass
Sören Teckenburg – Drums