Recensione: Black Waltz

Di Stefano Burini - 21 Dicembre 2012 - 0:00
Black Waltz
Band: Avatar
Etichetta:
Genere:
Anno: 2012
Nazione:
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75

Avatar: un nome che può assumere molteplici significati sia per gli amanti della musica dura (era il nome scelto dai fratelli Oliva per la loro primissima band, ancor prima della nascita dei Savatage) sia per gli appassionati di cinema, visto il successo planetario dell’omonimo film del 2009 a firma di James Cameron. Eppure, dietro ad un monicker tutto sommato non esattamente di primissima mano, si nasconde un gruppetto di musicisti svedesi formatosi in tempi non sospetti (2001) in quel di Göteborg e dedito ad un death metal melodico dapprima piuttosto tradizionale e, in seguito, sempre più alla ricerca di contaminazioni e ammodernamenti à la page.  

Terreno piuttosto scivoloso, quindi, quello su cui i cinque svedesi hanno deciso di muoversi: levigare ed ammodernare (leggi: far diventare più trendy) della musica che, in ogni caso, prende le mosse da un genere chiamato “death metal”, seppur melodico, è operazione che fa molto spesso arrabbiare l’ascoltatore e che difficilmente permette di dare alla luce lavori realmente convincenti. Il più delle volte è proprio il sentore di opportunismo a farla da padrone e non sono in molti a possedere il gusto e il talento per reggersi in equilibrio su una fune così sottile, tesa sopra al baratro della commercialità più becera ed affettata.  

Gli Avatar non sono di certo artisti che sconvolgeranno il mondo della musica (né, scommettiamo, interessa loro farlo in alcun modo) ma sono sicuramente furbi e determinati: loro su quell’esile fune non si sognano nemmeno di appoggiarci piede e di certo preferiscono munirsi di uno zaino a reazione, roboante e caciarone, con cui andare direttamente dall’altra parte del burrone. Ed in effetti, tra i solchi (si fa per dire) di “Black Waltz”, di melodic death ce n’è davvero poco: più che altro, ormai, si tratta di reminiscenze circoscritte alle prime tre-quattro canzoni in scaletta, nemmeno tra le più brillanti di tutto l’album.

Dall’opener “Let Us Die”, inaugurata da un guitar riff di stretta marca djent e caratterizzata dal growling basso e sibilante di  Johannes Eckerström, fino a “Ready For The Ride”, passando per la più groovy e addirittura danzereccia “Torn Apart” (tra le migliori), l’influenza degli In Flames è evidente e per nulla nascosta, ma è da “Napalm” in poi che l’album prende definitivamente quota. I ritmi si affievoliscono, subentrano parti vocali in pulito di buona fattura (nonché screaming degni del Randy Blythe più demoniaco) e le sonorità vanno ad invadere, in più d’un occasione, i territori dell’hard rock più moderno, groovy e, a tratti, addirittura goticheggiante.  

I termini di paragone, ora, più che In Flames e Dark Tranquillity, diventano di volta in volta i penultimi Soilwork, come in “Napalm”, giocata su ritmi cadenzati e ballabili, o addirittura i Volbeat e i 69 Eyes, come accade con “Let It Burn”, in cui l’incedere rock ‘n’ roll e il vocalismo brianjohnsoniano di un Eckerström davvero in palla assestano un destro in piena faccia agli uni e faranno probabilmente rodere d’invidia gli altri. La title track gioca con le arie del valzer (non a caso) mescolandole in maniera sorprendentemente efficace con il death/groove tpico degli Avatar mentre le violente “Blod” e “One Touch” acquisiscono buona personalità rispettivamente grazie ad inserti gotici/fiabeschi degni di un film di Tim Burton, a piccole citazioni Rammstein-iane e ad guitar work di matrice squisitamente neoclassical hard rock. Arrivano a dilettarsi addirittura con il metalcore, i ragazzi di  Göteborg, nella riuscita “Paint Me Red”: il lavoro di basso e chitarre è all’ultimo grido e i battiti scanditi da John Alfredsson mantengono il pezzo su territori piuttosto soft e ballabili ma il vero plus, questa volta, è costituito dall’ottima melodia in pulito.

Il finale di “Black Waltz” è riservato ai due pezzi sicuramente più particolari ed indovinati in lista. “Smells Like A Freakshow” ha un andamento carico e saltellante, di chiara derivazione hard rock e una rifinitura “elettronica” decisamente appropriata, mentre la torrenziale “Use Your Tongue” conclude alla grande con i suoi dieci minuti a base di armoniche a bocca, atmosfere a metà tra il blues e il western, incursioni nell’horror/gothic degne di un Danny Elfman sotto effetto di allucinogeni e tonnellate di groove.   

Parola d’ordine divertimento, dunque, e ascoltando “Black Waltz”, se non siete dei puristi avrete di certo di che godere: l’album è piacevole, scorrevole e ben realizzato sotto tutti i punti di vista, un vero e proprio scacciapensieri che riuscirà senza troppa fatica nella sempre lodevole impresa di strapparvi qualche sorriso.  

Un lavoro imperdibile? No. Il disco più divertente dell’anno? Molto probabilmente!

Stefano Burini

 

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Line Up  

Johannes Eckerström: voce

Jonas Jarlsby: chitarra

Tim Öhrström: chitarra

Henrik Sandelin: basso

John Alfredsson: batteria

Tracklist  

01. Let Us Die

02. Torn Apart

03. Ready For The Ride

04. Napalm

05. Black Waltz

06. Blod

07. Let It Burn

08. One Touch

09. Paint Me Red

10. Smells Like A Freak Show

11. Use Your Tongue

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