Recensione: Blackfinger

Di Carlo Passa - 28 Marzo 2014 - 10:14
Blackfinger
Band: Blackfinger
Etichetta:
Genere:
Anno: 2014
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71

Lasciati gli storici Trouble nel 2008, Eric Wagner ha dedicato molto degli ultimi anni alle composizioni che sarebbero diventate l’album d’esordio dei Blackfinger. Il genere proposto è facilmente prevedibile: doom di ottima fattura, impreziosito dalla voce matura e sapiente di Wagner.
In vero, il disco è una madeleine che vi scoppierà tra le fauci. Una madeleine a doppio bersaglio; se, infatti, da un lato i Sabbath degli anni di Ozzy (e, particolarmente, del periodo intorno a Sabotage) non possono non venire alla mente, dall’altro è il grunge più metallico dei primi Soundgarden et similia ad imporsi alla memoria. Forse, l’ammontare di anni settanta o di primi anni novanta che i Blackfinger vi riporteranno dipenderà dalla vostra età; al recensore sono barlumati i camicioni scozzesi, l’introspezione stanco-depressa e taluni fotogrammi di film culto della generazione X americana come Singles o Giovani, carini e disoccupati. Tutto molto primi anni novanta.
Potremmo dire che vent’anni fa (o giù di lì) tutto pareva aver fine proprio laddove era cominciato. Se è vero che i suoni dei Sabbath avevano dato la stura a ciò che ancora oggi motiva il mio scrivere e il vostro leggere, non si può non constatare come proprio quei suoni furono il punto di partenza per molte band di Seattle che, come è noto, sarebbero diventate il tarlo che avrebbe velocemente roso il metal scintillante degli anni ottanta.
Tutto questo per dirvi che i Blackfinger suonano come una band di vent’anni fa che vuole suonare come una band di quarant’anni fa. Il loro disco d’esordio presenta, dunque, tutti i pregi e i difetti che potete immaginare: tecnica mai ostentata (come proprio del genere), buone melodie, produzione caustica al punto giusto e nessun briciolo d’innovazione. Ma perché cercarla in un disco del genere? e, a maggior ragione, se alla voce c’è un certo Eric Wagner?
Dunque, altri sono i parametri di valutazione di Blackfinger, il principale dei quali risponde alla domanda: il disco ha belle melodie? Sì, ha belle melodie, alcune davvero azzeccate. I Blackfinger sembrano dare il meglio di sé negli episodi più intimisti (sarà per l’età del buon Wagner?), come I am Jon, Here Comes The Rain e la notevole As Long As I’m With You. Quest’ultima, assieme a Keep Falling Down e On Tuesday Morning, è forse l’episodio più marcatamente anni novanta dell’intero disco, con quel suo incedere stanco e caracollante che quasi mi commuove di nostalgia: e il true metaller che è in me stupisce non poco.
Meritevoli di un ascolto sono anche Yellowwood (che è molto debitrice dei quattro di Aston, soprattutto nel riff) e Here Comes The Rain, mentre altri episodi sembrano richiamarsi a vicenda un po’ troppo, scadendo in una certa noia. Ma forse è proprio questo che i Blackfinger vogliono veicolare con i loro riff lunghi, le melodie strascicate, gli assoli solo apparentemente slabbrati.
Insomma, una madeleine ben cucinata, a cui non chiedere più di quanto possa effettivamente dare.

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