Recensione: Blood Mantra

Di Vittorio Sabelli - 24 Settembre 2014 - 9:05
Blood Mantra
Band: Decapitated
Etichetta:
Genere: Death 
Anno: 2014
Nazione:
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75

Polonia: terra di crude realtà, musicali e non, dove il death metal ha esplorato ambiti ignoti ai comuni mortali sin dai primordi con i padri Vader. Da allora la scena ‘interna’ ha visto le più variegate act fare fuoco e fiamme alla ricerca di un sound personale e allo stesso tempo ‘nazionale’, sinonimo di una voglia di emergere dall’ambito underground, comunque risorsa vitale per la scena locale del paese.

Krsno 1996: al confine tra Slovacchia e Ucraina quattro giovani musicisti con doti tecniche e compositive ben oltre le ‘normali’ band da club si lanciano a capofitto in un progetto tra i più interessanti della scena estrema. Trainati dalla genialità e dalla furia del chitarrista Vogg, un mix tra il groove di Dimabag Darrell e i poliritmi delle asce dei Meshuggah, i Decapitated hanno strabiliato e stravolto (in parte) il modo di fare death metal, cercando il proprio sound e la propria strada, senza fare sconti e pagando dazio per aver intrapreso il sentiero più impervio. Ma la classe della band è sopraffina e basta il disco d’esordio (“Winds Of Creation”) e un brano capolavoro (“Spheres of Madness”) per lanciare la band tra ‘quelle importanti’.

Tanto che dall’iniziale label Wicked World Records, passando per la Earache Records, la band approda nel 2011 alla corte della suprema Nuclear Blast, con l’album “Carnival Is Forever”, primo disco con la band orfana dell’eccelso Vitek dietro i tamburi, che aveva dato un apporto essenziale per la crescita e per lo stile maturato negli anni dalla band. A sostituirlo Krimh, che però abbandonerà la band poco prima dell’inizio delle registrazioni dell’ultimo “Blood Mantra”, sostituito dal giovanissimo Mlody, così come, rispetto al precedente lavoro, le quattro corde di Pasek prendono il posto dell’ex Crionics Heinrich.

L’opener “Exiled In Flesh” è aperto da un riff oscuro e lento sul quale si scaglia una prima raffica di acciaio per introdurre l’istrionico Piotrowski, che fa il suo ingresso in maniera aggressiva su un riff groovoso, riuscendo a catturare la scena per questo breve ma intenso aperitivo, che chiude inaspettatamente con una chitarra pulita. Che gioco staranno mai facendo? Basta l’intro di “The Blasphemous Psalm To The Dummy God Creation” per restare atterriti da quella che è una vera e propria sassaiola di granate, senza risparmiare nessuno si passa da un riff poderoso a una sezione cantata col basso di Pasek da contraltare, passando per un solo di chitarra atonale che non può che riportarci a un nuovo deja-vu per due minuti e mezzo di assoluto massacro.

“Veins” vede ancora la voce dimenarsi in versione Phil Anselmo in ‘Becoming’ in un riff groovoso ma ‘dritto’ fino ad andare a infrangersi in una sezione medium che apre a sua volta a quelle che sono le meraviglie della band: quei tempi dispari, incerti, che fanno girare la testa, anche se non in maniera particolarmente devastante. Anche la title-track “Blood Mantra” gira in maniera regolare ad esclusione di una mini-sezione con tempi dispari e un solo di chitarra coloristico. Unica nota degna il finale in cui si scatena il brano, ma senza raggiungere un climax da liberazione, anche perchè lo stile vocale di Piotrowski rimane abbastanza ancorato alle stesse metriche per tutta la durata del brano, mentre i riff ‘impegnativi’ di Vogg sono sempre disarmanti.

“Nest” rientra nei brani dai tratti caratteristici Decapitated, di quelli che vanno a spezzare i riff, e che entrano inevitabilmente in ambiti *-coreggianti, anche se in maniera discreta e non particolarmente disturbante. Il sound è poderoso, matematico, perfetto, ma quel che continua a non convincere è la prova del vocalist, che sembra rifugiarsi nello spazio di poche idee. Cosa che non manca alla sei corde di Vogg, anche se in maniera molto ritmica, come segno distintivo del suo stile, mentre l’approccio in fase di soli è soprattutto incentrato su una ricerca coloristica, che sfocia in questo caso in un lunghissimo articolato tapping.

“Instinct” è made in Decapitated 100%. Ottimi riff tecnici su tempi improbabili sono materia prima per decretare guerra all’inefficienza musicale. La ritmica Pasek/Mlody viaggia in maniera perfetta per sostenere la voce di Piotrowski e soprattutto la sei corde di Vogg, che riesce a intavolare arrangiamenti vari e mai scontati. Cambi di tempo e ancora soli melodici e mai tecnici. Il finale è un medium spezzacollo che dal vivo diventerà un altro brano killer (non casualmente occupa la stessa posizione di Spheres of Madness in setlist). “Blindness” è un brano paranoico incentrato su un groove etnico di batteria e su un riff sempre in costante evoluzione/involuzione, nel quale la voce entra ed esce quasi ‘ad libitum’ e del quale non si comprende appieno il senso, considerando che per tutti i suoi sette minuti e mezzo varia ben poco.

La conclusiva “Red Sun” esplora ambiti al limite della new age e a questo punto diventa abbastanza chiaro il titolo di questo sesto capitolo della saga di una delle più interessanti band dell’intero panorama, che però non convince appieno a livello di contenuti, se non per la metà dei brani. Mentre per la restante metà si riscontra poca ricerca a scapito di normalità’ e fruibilità (magari per le nuove generazioni), che da una band del calibro dei polacchi il sottoscritto fa fatica a digerire. 

Vittorio Sabelli

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