Recensione: Breaker

Di MotorcycleMan - 1 Settembre 2003 - 0:00
Breaker
Band: Accept
Etichetta:
Genere:
Anno: 1981
Nazione:
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85

Gli Accept (come tutti ben saprete) sono una delle band tedesche più seminali di tutti i tempi, tutto il sound power/speed è debitore a questi cinque ragazzotti della Germania. Però, come alcuni di voi sapranno, non hanno fin da subito forgiato questo sound. I primi due dischi (Accept e I’m A Rebel) erano molto ispirati al rock and roll classico e ruffiano, come AC/DC, Sweet e Rolling Stones, e sinceramente non erano un grande esempio e spesso scadevano in delle banali copie. Ma già qualcosa cominciava a muoversi nel secondo LP del combo, dove la title track (I’m a rebel) e “Thunder and Lightning” cominciavano a mostrare un interessamento verso il sound british della NWOBHM tipico in quegli anni, pur mantenendo le origini teutoniche di gruppi come gli Scorpions. La band capisce che è destinata a quel suono, e nel 1981 irrompe il loro terzo album, Breaker, ed è abbastanza sorprendente la trasformazione da gruppo sempliciotto di R n R al granitico pezzo di metallo che hanno forgiato con questo platter. La formazione è classicissima e presenta tutti musicisti di elevato livello: Udo Dirkschneider (Voce), Wolf Hoffman (Chitarra solista), Jorg Fischer (Chitarra ritmica e qualche parte solista), Peter Baltes (Basso, voce) e Stefan Kaufmann (Batteria).

La prima canzone irrompe attraverso gli speaker del vostro stereo come un fulmine metallico, è Starlight, dal riff incandescente, pompa adrenalina nelle vene dell’ascoltatore intento ad headbangare, e ci mostra un tipico esempio dell’Accept sound che qui i nostri cominciano a forgiare. A colpirci specialmente la voce di Udo, un cantante terribilmente sottovalutato, ma che io colloco fra i migliori cinque della storia dell’HM, per la sua voce singolare e malleabile (si adatta senza difficoltà a qualsiasi tipo di canzone), per la sua immensa bravura nel raggiungere vette alte con le corde vocali, insomma non solo un carismatico frontman ma anche un grande singer. L’altro fenomeno del gruppo risponde al nome di Wolf Hoffman (adesso diventato un fotografo professionista) che in ogni canzone ci dimostra di maneggiare la sua Flying V (che non ha mai cambiato dal 78) con una maestria unica ed originale; ha alle spalle diverse influenze della musica classica, ma sa forgiare in equal misura assoli rocciosi e raffinati. Detto con sincerità, lo preferisco alla maggioranza dei ben più blasonati guitar hero tedeschi, che secondo il mio modesto parere sfruttano le loro capacità solo per mettersi in mostra senza amalgamarle con le composizioni. E’ giunto il momento della title track, Breaker (a mio avviso una delle migliori cinque canzoni della produzione Acceptiana), e qui raggiungiamo velocità sbalorditive per l’epoca, un ottimo uso della doppia cassa di Kaufmann, una prestazione geniale al basso di Baltes, Udo che intona un refrain dannatamente catchy ed orecchiabile, un pezzo granitico di acciaio colante. La cosa che più mi ha colpito in questa canzone sono i molteplici assoli di Hoffman, con melodie che presentano diversi richiami alla musica classica, semplicemente geniali. Nella successiva Run If You Can troviamo un ennesima perla di puro heavy metal in gran parte influenzata dai metal gods Judas Priest, specialmente per quanto riguarda il riff; davvero bello il ritornello melodico che si stampa nel nostro cervello dopo pochi ascolti, uno dei migliori brani del disco. Degno di nota sia l’assolo incrociato delle due chitarre e la parte finale che presenta una cavalcata di batteria, un pezzo di chitarra che verrà riciclato in Ahead Of The Pack e dei favolosi riff melodici finali. decisamente atipica all’Accept sound è la power ballad Can’t Stand The Night, e se qualcuno aveva in mente che la voce al vetriolo di Udo non potesse essere romantica, beh si ricrederà ascoltando questa poetica canzone. Una prova decisamente da applauso per Udo e per Hoffman, secondo il mio parere tra le prove più cariche di feeling che abbiano mai dato i due, song geniale. subito dopo si torna all’HM a cui eravamo abituati prima, con un’ altra delle migliori song del lotto, Son Of A Bitch, un brano spensierato e roccioso, dal testo decisamente volgare e provocante, un refrain da birraioli tedeschi, ed un “uuuuuuuuuh” centrale davvero divertente; ottima per sfogarsi dopo una giornata di grane al lavoro. Musicalmente comunque è abbastanza geniale, specialmente i pezzi di chitarra incrociati con suoni di violini e l’assolo sempre eccellente del “solito” fenomeno Wolf, peccato la fine in fade che tronca l’assolo. Burning invece è il giusto punto di incontro tra il sound degli AC/DC del disco precedente e la scarica di metallo di questo, un vero classico del gruppo, particolarmente efficace live (basta sentire la versione da sette minuti nel mastodontico live Staying A Life). la settima traccia è Feelings, un mid tempo gradevole e ritmato dal riff eccellente, non particolarmente brillante e perde un pò con il resto dell’LP. Molto strana anche la seguente Midnight Highway, che nei riff e nel ritornello sembra quasi un piccolo plagio a “You shook me all night long”, rimane comunque una buona canzone da mettere ad alto volume specialmente in auto; decisamente carina la parte cantata da Hoffman. Ballad quasi completamente acustica è Breaking Up Again, cantata in un ottimo inglese dal bassista Peter Baltes. Testo un pò mielense, ed alla lunga può annoiare, ma i melodici giochi di chitarra nel centro della canzone sono incredibilmente piacevoli. Si ritorna all’HM ritmato e da headbanging con Down And Out, non sarà un capolavoro, ma è un pezzo dannatamente grintoso e da headbanging scalmanato, conclude più che degnamente il platter.

In definitiva il classico sound degli Accept inizia qui, un album piuttosto controverso che presenta un contenuto piuttosto vario con alti e bassi, ma è suonato con grande classe ed è stupendo da ascoltare. A mio avviso è il primo vero capolavoro degli Accept, che poi continueranno a deliziarci con altre tre gemme quali Restless And Wild, Balls To The Wall e Metal Heart, entrando così nell’olimpo degli dei del metallo senza più uscirne.

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