Recensione: Broken Hearts And Fallaparts

Di Stefano Burini - 2 Marzo 2014 - 9:00
Broken Hearts And Fallaparts
Band: Supercharger
Etichetta:
Genere: Hard Rock 
Anno: 2014
Nazione:
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Ha senso sprecare fiumi di parole (e dare per scontato il collaterale spreco di tempo da parte di chi le leggerà) per descrivere un album di qualità molto bassa? Si e No.
 
Da un lato appare certamente corretto e doveroso fornire un resoconto il più possibile esaustivo di cosa nel suddetto album non funzioni, motivando il tutto e magari provando anche a dare qualche suggerimento costruttivo, utile soprattutto quando ci si sta confrontando con ragazzi alle prime armi. Dall’altro lato, quando ci si trova di fronte ad un disco totalmente sconclusionato come il nuovo lavoro dei Supercharger, tutti i buoni propositi finiscono per vacillare vistosamente. Per la band danese non si tratta infatti del debutto ma del terzo capitolo discografico da studio e, vista la sconclusionata miscela di groove metal, hard ‘n’ roll e alternative rock che caratterizza tutti e tre i loro album risulta spontaneo chiedersi cosa mai abbia potuto portarli verso un simile traguardo. 
 
“Broken Hearts And Fallaparts” parte infatti in sordina con l’opaca “Like A Pit Bull”, afflitta da cori stucchevoli e da un guitar work all’acqua di rose, tuttavia la situazione non migliora particolarmente nel prosieguo dell’ascolto. “Supercharged”, “Blood Red Lips” e “Hold On Buddy” provano ad alzare (leggermente) il tiro e, pur rimanendo tre pezzi al più discreti e in ogni caso molto derivativi, (come dimostrano gli spudorati rimandi alla Bon Jovi-ana “Everyday” nel refrain della seconda e il flavour à la Theory Of A Deadman della terza), vanno a configurarsi come l’apice qualitativo dell’intero album.
 
Da questo punto in avanti il buio: i Supercharger provano a pigiare sul pedale del divertimento, nel tentativo di dare un tono scanzonato a canzoni malauguratamente troppo mosce per riuscire a lasciare il segno, e il risultato è in varie occasioni addirittura grottesco. La voce di Mikkel Neperus, quanto mai opaca ed impersonale, è in linea con una proposta a conti fatti parecchio insipida e gli inserti di pianoforte battente che dovrebbero dare alle composizioni un retrogusto rock ‘n’ roll a metà strada tra Jerry Lee Lewis e gli AC/DC, non fanno altro che confondere le idee. “Five Hours Of Nothing” suona quindi artificiosa nel suo essere forzatamente festaiola mentre “Yeah Yeah Yeah” è addirittura desolante nel suo malriuscito tentativo di ricreare atmosfere da vecchio west, aggiungendo slide guitar e armoniche a bocca che non incidono, in ogni caso, in positivo sul risultato finale.
 
Nella marcia verso la conclusione troviamo altri pezzi sulla falsariga di quelli descritti, sempre in bilico tra  hard, rock ‘n’ roll, groove/alternative e atmosfere da vecchio west: una serie di canzoni sostanzialmente inutili, fondate su un mix di generi che ha il medesimo gusto ed equilibrio stilistico di pastrocchi quali “Zorro Contro Maciste” o “Alien Vs. Predator”. E tra di esse si salva soltanto la discreta “Goodbye Copenaghen”, una gradevole ballata per sole voci e banjo tutto sommato in linea con analoghe composizioni firmate dai più celebri conterranei D-A-D.
 
Non c’è molto altro da aggiungere si di un album nel quale c’è davvero poco da salvare e il consiglio, vista l’ampia offerta musicale degli anni duemilaedieci, non può che essere quello di rivolgere il proprio sguardo altrove.

Stefano Burini

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