Recensione: Catharsis

Di Gianluca Fontanesi - 29 Gennaio 2018 - 0:01
Catharsis
Band: Machine Head
Etichetta:
Genere: Vario 
Anno: 2018
Nazione:
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50

Il mondo ha bisogno di sangue, oggi più che mai. L’informazione, dai quotidiani ai social, ha basato quasi tutto il suo essere sul sangue, sul dare in pasto qualcosa alla gente da demolire sempre e comunque. Sembriamo sempre più un’umanità in allineamento caotico in attesa di qualcosa da sbranare a priori per poter inutilmente sfogare tutto il nostro male di vivere. Con questa premessa, dischi come Catharsis non potranno altro che sembrare come un ammasso deforme di carne gettato in una piscina piena di piranha.

I Machine Head sono da sempre una band che di onde ne ha cavalcate tante, forse tutte, ma va dato anche atto che la qualità non è stata risparmiata in dischi come Burn My Eyes e soprattutto The Blackening, per molti l’apice creativo della band e un vero e proprio classico del metal tutto. Nonostante una credibilità stilistica non proprio coerente, la band californiana negli ultimi anni, partendo da Through The Ashes Of Empires, è riuscita ad ottenere un successo sempre più clamoroso e a guadagnarsi il rispetto del pubblico metal con tour sempre più importanti e una fanbase in continuo aumento. I problemi di un disco come Catharsis risiedono però già a priori nelle premesse e nei proclami, con un Rob Flynn che in qualche intervista si dichiara annoiato dall’ambiente, stilisticamente libero e via dicendo. Il risultato è appunto il sangue: quello che alimenterà chi non aspettava altro, quello che creerà flame a profusione, quello che metterà gli uni contro gli altri, quello che ancora una volta farà chiedere al pubblico metallico se è meglio l’ortodossia o la contaminazione. Benvenuti al macello.

Il nono album dei Machine Head è composto da ben quindici brani per oltre settantacinque minuti di durata; le danze si aprono con Volatile, che viene introdotta da un riff abbastanza semplice e un anacronistico “Fuck the world” che ormai non si sentiva dalla seconda metà degli anni ’90. L’incedere è potente e i cambi di tempo abbastanza telefonati; subentra poi un inciso piuttosto mieloso e, anche se non è chiaro di che volatile si stia parlando, scommettiamo che ben più di un italiano interpreterà il ritornello come “Vomito” ripetuto ad libitum. Il brano strutturalmente si ripete con un riff nella strofa piuttosto semplice e scremato e il ponte è il classico lentaccio schiacciasassi in stile Machine Head con gli immancabili armonici e una buona parte solista. Tutto sommato parliamo di un brano discreto, che di certo non farà saltare dalla sedia ma non è nemmeno da buttare. Già comunque si può notare una scrematura strutturale e una povertà a livello di ritmiche e riffing che tanto rimanda a pessimi dischi come The Burning Red e Supercharger; sì, finezze e armonizzazioni più intricate ci sono, ma sembrano quasi messe a forza specialmente sull’inciso che, con quel tipo di clean vocals, potrebbe quasi arrivare a infastidire. La titletrack viene servita praticamente subito ed è aperta da un’intro orchestrale e cinematografica. Il riff iniziale rimanda all’incipit di Nemesis degli Arch Enemy e la partenza è però piuttosto antitetica: da una parte doppia cassa a raffica e la Gossow in grande forma, qui una strofa che a molti farà venire il diabete. Clean vocals dalla timbrica più mielosa e ruffiana del globo terracqueo, sembra di fare un frontale contro un tir carico di zucchero; la strofa si arrabbia giusto un pochino per lasciare spazio al ritornello che, al primo passaggio, appare filtrato e servito come un qualsiasi brano pop che passa per radio. La zuccheriera si ripete e questa volta il ritornello si sente ed è assolutamente pop sia nella trama che nei suoni, scelta che sicuramente farà storcere il naso a molti, gridare allo scandalo altri e a qualcuno piacerà. Quando il brano sembra essere finito, riparte un ponte leggermente arrabbiato che sembra un po’ incollato lì per salvare il salvabile, ma ormai il danno è fatto.

Brivido, terrore e raccapriccio. I prossimi tre brani li possiamo descrivere così. Iniziamo da Beyond The Pale e al plagio clamoroso a Love? degli Strapping Young Lad, polemica già famosa alla quale il buon Devin Townsend non ha praticamente dato peso, e ne aveva ben donde. Lasciando perdere la scopiazzata, che sicuramente sarà stata fatta in buona fede, il brano ha una strofa 100% nu metal, un inciso che ancora una volta ha problemi di glicemia e ricorda Tu Scendi Dalle Stelle e un ritornello che sembra dire “I’ve found salvation in masturbation”. In sostanza si passa dalla fiaccolata in piazza ad Assisi a Natale fino ad un’improbabile partnership con PornHub e alla più becera delle Sodoma, e non ci si toglie l’immagine dalla mente nemmeno quando si scopre che la parola esatta è in realtà “emancipation”. Brano che definire terrificante è riduttivo, non basta nemmeno una buona parte solistica centrale a renderlo decente e ci sentiamo di bocciarlo in toto, direttamente e senza passare dal via. Stessa sorte per la seguente California Bleeding, banale giochetto di parole di rimando alla ben più famosa California Dreamin’, che sembra una Before I Forget degli Slipknot con l’acne. A tratti sembra davvero di incappare in Taylor e soci ma ad un livello talmente adolescenziale da essere quasi disarmante. Brano catchy, orecchiabile, ma dalla longevità di una zanzara, assolutamente inconsistente. Il piatto forte però arriva con la seguente Triple Beam, che è semplicemente il peggior brano composto dai Machine Head in tutta la loro carriera. Torniamo al nu metal, all’hip hop ibridato con riff scarni che in tablatura vanteranno più 1 0 del Milan di Capello e a un brano che sarebbe stato pessimo anche in quegli anni, pessimo su Supercharger e, se andassimo a paragonarlo con sua magnificenza L.D. 50, sarebbe una catastrofe. Vanno bene le influenze, le contaminazioni, va bene tutto, ma se collochi quest’ultima in tutte le linee temporali e non ne esce nulla di buono, perché pubblicare il brano per forza? Qui si salva praticamente solo il ponte, e anche quello è un pattern già usato e abusato in tutte le salse. Il più grande problema di Catharsis è appunto questo: di sperimentare c’è modo e modo, ed è un disco che finora sembra tutto tranne che un’opera matura e intelligente. Apprezziamo sì il suo essere eterogeneo, imprevedibile e ricco di sorprese, ma se nel pacco c’è un pugno con la molla… Risulta anche incomprensibile il ritorno sonoro al periodo oggettivamente più buio della band, che anche in questo frangente finisce per non pagare affatto.

Kaleidoscope è introdotta da un battimani che fa venire voglia di lanciare il disco fuori dalla finestra, poi si rivela un piacevole brano hardcore melodico. Niente ovviamente che non sia già stato scritto e riscritto da Good Riddance, Strung Out, Pennywise e compagnia californiana andante, ma se lo prendiamo come un tributo a quel periodo e a quella scena funziona e a molti di noi ricorderà con piacere l’adolescenza. La strofa è arcigna e il ritornello ha un buon tiro e lo si canta praticamente al primo ascolto. Fosse stato curato un po’ meglio specialmente nella parte centrale, dove la riproposizione del ritornello in chiave orchestrale-pop come in Catharsis rischia di buttare tutto alle ortiche, sarebbe stato un brano veramente valido. Dal vivo comunque siamo certi che farà la sua porca figura. Bastards è una canzone da tacchino. Una canzone folk che negli Stati Uniti canteranno tutti insieme appassionatamente attorno al carnoso volatile il giorno del ringraziamento e nulla più. E’ il classico brano patriottico dove il padre spiega a un figlio gli orrori della società moderna, dell’amministrazione Trump e via dicendo; quindi chitarra acustica, linea melodica il più stucchevole possibile e pacchianissima apertura di quasi spoken word a indorare la pillola. Finalone con tanto di “No no no no no” e il gioco è fatto, li vedremo in tour coi Flogging Molly. Hope Begets Hope torna alle cose semiserie con un riffing piuttosto easy e i soliti cambi di tempo prevedibilissimi; la strofa è semiacustica in clean e il ritornello è tra i più scarsi dell’album. Suda, si sbatte, sbraita ma non morde. Ci si arrabbia ancora di più perché questi brani sono suonati benissimo: le armonizzazioni e le parti solistiche sono sempre ben fatte e ragionate, è tutto il resto che non sta purtroppo in piedi.

Ci troviamo ora, finalmente oseremmo dire, a parlare di tre bei brani! Screaming At The Sun è sempre sorretta da ritmiche nu metal, ormai dovreste averci fatto il callo, è potente, cadenzata e ha le clean vocals rimandanti agli Alice In Chains che non sono affatto male. E’ un brano breve, concentrato e che si rivela un esperimento particolarmente riuscito. Behind A Mask è una ballad a tutti gli effetti e ha come difetto solamente un’infelice collocazione in tracklist e un essere sommersa da altre bislaccherie; in conclusione di un disco normale avrebbe fatto un figurone, ma anche al posto di Bastards. Le melodie diventano finalmente adulte e accantonano il lacrimevole spicciolo che tanto oggi va di moda, Flynn sente il pezzo e lo interpreta benissimo e il ponte spagnoleggiante è una ciliegina su una torta che mangiamo ben volentieri. Sembra ora strano parlarne, ma Heavy Lies The Crown è un pezzo metal! Uno dei pochi del lotto, viene introdotto in maniera orchestrale e, dopo una partenza heavy e votata alle clean, i Machine Head iniziano a pestare come degli ossessi e si torna a respirare un po’ di sana lamiera fumante. Tornano le bordate thrash, le armonizzazioni che rimandano ad Halo e il finale è un bel tritacarne che farà contenti un po’ tutti.

Psychotic rimane su coordinate movimentate ed è aperta da un buon battere. Si torna però al nu metal di quarta mano e a un rappato che continua a non pagare in nessuna maniera; il ritornello è piuttosto inconsistente e ancora una volta i cambi di tempo sono prevedibilissimi. Il ponte in doppia cassa appare incollato lì senza motivo apparente; si susseguono colpi di fucile, stacchi repentini e la destrutturazione inizia pian piano a funzionare con una seconda parte sicuramente più interessante della prima. Non siamo in ogni modo su livelli alti, ma la psicosi appare ben definita e priva di punti di riferimento come dovrebbe essere. Grind You Down offre un inizio che più stridente non si può e arriva a sembrare quello di Future Breed Machine; parliamo di un altro brano che alterna nu metal, accelerazioni in doppia cassa e un ritornello in clean facilmente assimilabile. Qui siamo alla traccia numero tredici e probabilmente anche stanchi, ma questo brano all’inizio della tracklist non avrebbe di certo sfigurato, anzi. Il ponte vira sul thrash e il ritornello in clean arriva a dare il giusto respiro; il finale spazza via tutto e mette in archivio un buonissimo pezzo. Razorblade Smile ha un incipit che ricorda Painkiller e il riff portante sa di già sentito lontano un chilometro. Il brano è comunque una piacevole cavalcata e ha un ponte che dal vivo avrà un tiro micidiale, inattaccabile ovviamente la parte solistica e ci sentiamo senza ombra di dubbio di considerare riuscito anche questo brano. Della conclusiva Eulogy invece non siamo in grado di dire le stesse cose, anzi, nel momento in cui ci avevamo preso gusto a sentire brani piuttosto buoni, arriva la mazzata finale e il disco vola veramente fuori dalla finestra. Eulogy da subito sembra una outro, poi supera i 6 minuti e diventa una versione orripilante della già discutibile Bastards. Ne riprende le linee vocali, le rende una nenia insopportabile e arriva davvero a sembrare un canto natalizio verso il finale, rendento il tutto francamente cestinabile.

E’ tutto. O forse no?  Probabilmente è solo l’inizio.

Catharsis farà più che discutere: farà inviperire, farà ridere ed è veramente difficile capire quale sia il suo intento per più della metà dei suoi brani. A qualcuno ovviamente piacerà e comunque dobbiamo dare a Cesare quel che è di Cesare: non è assolutamente tutto da buttare e nella storia del metal abbiamo sicuramente ascoltato tonfi molto più clamorosi di questo. Catharsis risulta terrificante quando va a suonare generi in voga oltre un decennio fa e li va anche a interpretare male; The Burning Red e Supercharger sono lì a spiegare cosa i Machine Head non riescono a fare bene e di certo non era il caso di rimarcarlo ora dopo un certo tipo di carriera. Ci sta il coraggio, e il non ripetersi per un artista dovrebbe quasi essere un atto dovuto, ma ci sono momenti in cui la corda viene tirata troppo e finisce per spezzarsi. Paradossalmente, il genere che e l’ambiente che annoia di più il buon Robb è anche quello che, dischi alla mano, riesce a suonare e interpretare meglio, su questo dovrebbe riflettere ancora prima di strombazzare proclami sui social.

Il mondo ha bisogno di sangue e questa volta lo avrà. Ma il mondo funziona un po’ come i piranha: la massa sanguinolenta viene sbranata in un batter d’occhio e poi ci si dimentica molto in fretta di quel pasto, perché la fame torna, se ne vuole ancora e si va a cercare altrove. In quel batter d’occhio, però, tutti ne parlano, ma proprio tutti, ed è qui che Catharsis vince anticipando tutte le dinamiche, trasformando la massa sanguinolenta in pirahna e rendendoci tutti facili prede.

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