Recensione: Cathodnatius

Di Fabio Vellata - 22 Giugno 2019 - 0:01
Cathodnatius
Band: Ananda Mida
Etichetta:
Genere: Stoner 
Anno: 2019
Nazione:
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75

Terzo disco per gli Ananda Mida, esploratori del suono psichedelico ed allucinogeno che con “Cathodnatius” mostrano i numeri e caratteri palpabili utili nel reclamare posizioni di livello in una scena singolarissima e ribollente, all’interno della quale il tricolore ha da tempo un ruolo orgogliosamente di primo piano.

Nell’anima e nel cervello le immagini di un immenso deserto liquefatto da un sole immobile ed inesorabile, cui si mescolano fotogrammi di pianeti dispersi nell’oscurità del cosmo, bagliori spaziali e visioni colossali. Follie psichedeliche, divagazioni rarefatte che d’improvviso prendono corpo ed esplodono in colori accecanti ed imprevedibili.
L’esperienza di un disco degli Ananda Mida è qualcosa di altamente particolare e fuori dagli schemi: c’è un po’ di stoner, frammenti di desert rock, molta psichedelica, un che di ambient e post rock. Persino pizzichi di southern.
Difficile insomma, una miscela che non lascia scampo: per riuscire ad entrarne in sintonia è necessario apprezzarne a priori i connotati o si rischierà di perdersi – negativamente – nei recessi di un labirinto di suoni che potrebbero risultare al più incomprensibili, quando non semplicemente tediosi ed inconcludenti.

Non sarà così invece, per chi con stoner ed affini ha un feeling aperto. In quel caso le soddisfazioni potrebbero essere copiose e di un certo rilievo. 
C’è, come ovvio, da prendere un po’ di confidenza con un immaginario spesso distante e non proprio del tutto orecchiabile: le atmosfere deviate e stranianti di pezzi come “The Pilot” e “Blank Stare” richiedono più d’un ascolto per entrare in circolo, mentre spiazza l’onirismo di “Out of the Blue”, singolare frammento di quiete dai risvolti country che rappresenta un unicum nella narrazione del disco.
Ci sono poi i momenti da segnare con il proverbiale evidenziatore fluorescente. A testimonianza di come agli Ananda Mida non manchino di certo personalità e voglia d’osare, ecco la conclusiva e pachidermica “Doom and the Medicine Man”, ventidue minuti ininterrotti, divisi in quattro movimenti, di divagazioni doom, viaggi ai limiti della psiconautica ed ipnotismo stoner che sanno di peyote e mescalina. Stordente, arduo, riservato ai coraggiosi: un pezzo fuori da ogni schema degno di Grateful Dead e Iron Butterfly.
C’è, infine, il passaggio che, a nostro parere, riserva le idee migliori di tutto il cd. “Pupo Cupo”, bizzarro sin dal titolo, è un brano dalle sensazioni notturne, striscianti, caliginose, sorretto da un riff visionario ed evocativo – quasi pinkfloydiano – che avvinghia e riesce ad incidersi in memoria come una cantilena ossessiva e narcotizzante. 

Non proprio materiale adatto alle orecchie di tutti insomma.
Già dalla stravagante copertina è ben chiaro come la terza opera partorita dalle menti di Matteo Scolaro (chitarre) e Max Ear (batterista e co-fondatore dell’etichetta Go Down Records) riservi sensazioni diverse dalla consuetudine, offrendo la visione di un universo parallelo alieno e mutaforma. 

Nonostante siano già al terzo cd in pochi anni, non avevamo mai incontrato prima d’oggi gli Ananda Mida.
Una lacuna che abbiamo colmato con piacere, provando la sottile ed insondabile soddisfazione di chi scopre qualcosa di praticamente unico e ben difficile da replicare.

 

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