Recensione: Clouds of Confusion

Di Daniele D'Adamo - 26 Maggio 2023 - 0:00
Clouds of Confusion
Etichetta: Hammerheart Records
Genere: Death 
Anno: 2023
Nazione:
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78

I Phlebotomized sono forse poco conosciuti ai più ma navigano le acque del death metal sin dal 1990, con la conseguente, notevole partecipazione alla spinta nel processo di crescita del genere appena citato. Non solo per aver vissuto in prima persona la trasformazione dei generi estremi degli anni ottanta, thrash in primis; quanto, piuttosto, per essere stati gli epigoni della contaminazione dell’ortodossia con arrangiamenti di tastiere e di violino.

I full-length in carriera sono solo quattro, e questo perché la loro storia artistica ha avuto un andamento altalenante fra scioglimenti e riunioni. Dal 2018, anno di “Deformation of Humanity”, si è avuta una pur minima continuità che ha portato al parto dell’ultimogenito, “Clouds of Confusion”.

Un’osservazione. Subito. Tanto per chiarire le idee. E cioè, che il carattere distintivo che essi si sono portati dietro dalla nascita è rimasto intatto. Anzi, si è evoluto in una forma più definita, tale da rendere il sound del combo olandese praticamente unico nel suo genere. Oggi, presumibilmente, si parlerebbe di atmospheric death metal, tuttavia appare più consono al contesto discutere sempre di death, attraversato da una sottile lama del duro gothic dei primi anni novanta, con infine un pizzico di heavy metal.

Dissertazioni sulla nomenclatura metallica a parte, il disco mostra un’innata predisposizione alla melodia. E questo come uno dei segni particolari principali. Non si tratta di roba catchy, assolutamente no, quanto, bensì, di armonizzazioni assai piacevoli per chi ascolta, dal taglio visionario. Tre chitarre in formazione, del resto, dipingono sulla tela del pittore pennellando con forza i più variegati colori. Fra tutti, quelli rossastri del tramonto, che donano all’LP un dolce senso di malinconia. Di struggente nostalgia (‘Lachrimae’, ‘Bury My Heart Reprise’) per il tempo che sfugge fra le dita delle mani portando con sé ricordi, emozioni, sensazioni, profumi, suoni.

Tre chitarre che, inoltre, si rincorrono fra loro sia nell’elaborazione di un riffing totalmente vario, a volte furioso (‘Death Will Hunt You Down’), compatto e potente come da definizione di death metal. Abilissime, pure, a tracciare ampie volute soliste, dai colori scintillanti, sostenute da intrecci di note sincronizzate alla perfezione fra loro (‘Dawn of Simplicity’).

Una musica piena zeppa di elementi variegati, insomma. Compreso il growling rauco e stentoreo di Ben de Graaff, adatto per comprendere abbastanza bene le tematiche testuali. Forse qualche segmento eseguito in clean vocals non avrebbe fatto male, giusto per migliorare ulteriormente la produzione emotiva, però i Nostri non sono certo di primo pelo per cui si tratta certamente di una scelta voluta, presumibilmente per attivare al massimo l’antitesi brutale/delicato. La sezione ritmica detta i tempi della varietà, toccando tutti i tipi di pattern, dai più lenti sino a sfondare la barriera dei blast-beats (‘Desolate Wasteland’, ‘Context Is for Kings (Stupidity and Mankind)’). In ultimo ma non ultimo Rob op ‘t Veld, genio del sintetizzatore, capace di tessere un enorme tappeto di tastiere che s’insinua come un serpente fra le maglie della musica prodotta dagli altri strumenti (‘Pillar of Fire’).

Le canzoni rispecchiano questa variabilità del sound risultando assai variabili anch’esse. La quantità di note prodotta per creare i singoli brani è veramente sterminata, tale da regalare al disco una longevità non comune. Variabili sia nella sostanza, sia nella durata, giacché si passa dai pochi secondi di ‘Desolate Wasteland’ agli oltre sette minuti della complessa suite ‘A Unity Your Messiah Pre Claimed’. A proposito di complessità, è forse qui che insiste il pregio migliore del sestetto di Rozenburg: rendere facili le cose difficili. Tant’è che, malgrado la loro struttura complicata, le tracce scorrono via fresche e veloci come l’acqua di sorgente.

Onore ai Phlebotomized che, in trentatré anni, non hanno snaturato nulla delle loro caratteristiche peculiari. “Clouds of Confusion” è un’opera per tanti ma non per tutti, dato che l’apertura mentale è uno dei requisiti principe per goderne le bocconate con gusto e voracità.

Daniele “dani66” D’Adamo

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