Recensione: Core

Di Riccardo Angelini - 28 Febbraio 2008 - 0:00
Core
Band: Persefone
Etichetta:
Genere:
Anno: 2007
Nazione:
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83

Beh, e questi da dove diavolo spuntano fuori?

Alzi la mano quanti siano familiari con il nome “Persefone”. Bene, ora la abbassino quelli che per prima cosa hanno pensato alla divinità greca, figlia di Demetra e sposa di Ade. Quante mani sono rimaste levate? Poche? Nessuna? Comprensibile: non si può certo dire che Andorra sia nota al mondo per la qualità della sua scena metal. Già, Andorra. È dal profondo dei Pirenei orientali che vengono questi sei ragazzi, fautori di una proposta la quale – si detto per inciso – merita senz’altro di uscire dall’ombra delle montagne natali.

Il progetto nasce nel 2001, inizialmente come semplice cover band di formazioni quali Dark Tranquillity, In Flames e Arch Enemy. Col tempo la band inizia ad allargare il proprio repertorio e sviluppare idee nuove, che la allontanano progressivamente dagli stilemi del Götenburg sound. Nel 2003 vede così la luce il primo demo dei Persefone, “Truth Inside The Shades”, interamente autoprodotto e successivamente trasformato in full-length grazie all’aiuto della Intromental Management. Tre anni dopo scocca l’ora del secondo capitolo: il combo pirenaico incide tre nuove tracce della durata media di circa venti (!) minuti ciascuna, affida il mastering a un professionista del calibro di Peter in de Betou (già al lavoro con Dark Tranquillity, Dimmu Borgir, Enslaved, Katatonia e Marduk) e si prepara al debutto internazionale vero e proprio. Inizialmente, tuttavia, l’album è diffuso solo in Giappone da Soundholic Records. Soltanto sul finire del 2007 la distribuzione europea diviene una realtà.

Rispetto agli esordi da cover band molto è cambiato, non c’è che dire. Cogliere in un sol colpo la varietà di stili dai quali i Persefone attingono può rivelarsi compito più arduo del previsto. Le radici melodic death sono indubbiamente ben riconoscibili: già nei primissimi brani è più che evidente il riferimento agli Opeth, soprattutto per quanto riguarda il suono delle chitarre. La band trae vantaggio da un ampio spettro di percorsi vocali, combinando uno screaming corrosivo con un growl di scuola Akerfeldt cupo e cavernoso, fra i quali vanno a innestarsi cori e sezioni pulite di grande impatto. Grazie a una sezione ritmica straordinariamente varia e dinamica i brani possono articolarsi in strutture complesse e mai prevedibili, che si affidano al magnetismo irresistibile di un riffing tanto tradizionale quanto trascinante per mantenere sempre salda la presa sull’ascoltatore. Parallelamente i tasti d’avorio, dopo un inizio in sordina, acquistano un peso vieppiù maggiore col procedere della tracklist, dapprima insinundosi nei binari delle chitarre, poi ritagliandosi intere sezioni soliste, che inducono il sound complessivo ad allargarsi verso nuovi orizzonti. Sonorità vintage di chiara ascendenza art rock emergono già sull’ultimo atto della prima macro-traccia, ma è con la successiva “Clash Of The Titans” che la fusione di death e progressive esprime tutto il suo potenziale. Gli intrecci di chitarre e tastiere travolgono l’ascoltatore con la potenza di un fiume in piena, che solo un drumming altrettanto potente e preciso riesce a incanalare verso un chorus semplicemente epico. Proprio l’epicità diviene l’elemento caratterizzante dell’intera seconda suite, che pure non rinuncia a nulla in termini di violenza. Il continuo riallacciarsi e sovrapporsi di parti più aggressive con sezioni maggiormente atmosferiche rappresenta l’autentico tratto distintivo della band, che presa fiducia non si priva del piacere di congedarsi momentaneamente dai natali lidi estremi per avventuarsi con sempre maggiore frequenza in pieno campo progressive. Diventano così i Genesis l’inatteso punto di riferimento di una lunga sezione strumentale che esplora con disinvoltura le praterie del symphonic prog, prima del brutale ritorno in scena del tema principale e del conclusivo intervento della voce femminile. Gli Opeth più atmosferici e pacati – quelli di “Damnation” per intenderci – tornano alla ribalta all’inizio di “Seed: Core & Persefone”, introdotta da una sorta di ballad onirica e suadente: il cantato pulito spodesta lo screaming e, nonostante qualche piccola sbavatura, ben conduce la melodia verso una nuova accelerazione. L’elemento melodic death torna di nuovo alla ribalta, affiancato da brevi innesti neoclassici e improvvise progressioni strumentali: ciò che sorprende maggiormente a tal riguardo non è tanto la (pur notevole) caratura tecnica di questi illustri sconosciuti, quanto la loro capacità di destreggiarsi fra territori sì lontani fra loro – come possono essere symphonic prog e death metal – senza con ciò mai smarrire il filo, bensì articolando le composizioni in strutture complesse eppur coerenti, che impegnerebbero non poco anche realtà di gran lunga più blasonate.

È un grande piacere per chi scrive constatare che ancora oggi, nel 2008, è possibile sorprendersi di fronte a una band sbucata dal nulla, ignorata dalle grandi etichette, eppure capace di confezionare un album di questo calibro. In un mercato in cui capita sempre più spesso che una formazione sia già celebre prima ancora di avere completato il disco esordio, i Persefone puntano solo sulle proprie forze per uscire dall’anonimato – una maturità artistica impressionante, un bagaglio tecnico di primo piano e, soprattutto, un talento compositivo fuori dal comune: queste le armi nell’arsenale di questi sei ragazzi, guai sottovalutarli per via dei loro natali.
“Core” è un’opera ambiziosa, non un mero riflesso di vanagloria bensì il frutto di una costruzione attenta e meticolosa, di un estro creativo fuori dal comune. Viene perciò spontaneo chiudere un occhio di fronte a certi debiti artistici, talora piuttosto evidenti, che la band contrae nei confronti di alcuni grandi nomi della scena attuale, soprattutto estrema (Opeth, si è detto, ma anche Edge Of Sanity e Dark Tranquillity). A fare la differenza sono, come sempre, le singole canzoni – sempre che di semplici canzoni si possa parlare. Impossibile dire oggi se si tratti di una nuova realtà o dell’ennesima meteora; solo il tempo potrà dirlo. Nel frattempo, godiamoci la musica.

Riccardo Angelini

Tracklist:

Sanctuary: Light And Grief
01. Act I: Goddess’ Wrath
02. Act II: Light’s Memories
03. Act III: Exiled To The Void
04. Act IV: To Face The Trut

Underworld: The Fallen & The Butterfly
05. Act I: Clash Of The Titans
06. Act II: Dark Thoughts From A Dark Heart
07. Act III: When The Earth Breaks
08. Act IV: Released

Seed: Core & Persefone
09. Act I: A Ray Of Hope
10. Act II: Self Betraying
11. Act III: Doubts Are Seed
12. Act IV: Dark Inner Transition
13. Act V: The End

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