Recensione: Countersighns

Di Marco Tripodi - 1 Marzo 2018 - 9:00
Countersighns
Band: Necrytis
Etichetta:
Genere: Heavy 
Anno: 2017
Nazione:
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62

Qualcuno pensa che siccome scrivi su una webzine tu sia onniscente, tu abbia – o debba avere – competenze pressoché infinite su qualsiasi band, qualsiasi disco, di qualsiasi epoca appartenente a qualsiasi sottocategoria del metal, del rock e affini. O magari c’è chi pensa che questa sia la visione che i redattori digitali hanno di loro stessi, immersi nella prosopopea e nella vanagloria da tastiera. Beh, sapete che c’è? Non è affatto così. Per i Necrytis ad esempio è avvenuto molto semplicemente questo: mi sono imbattuto in una loro recensione navigando tra i soliti siti che consulto per abbeverarmi di novità metal; poi ne ho letta un’altra ancora e quel nome mi è rimasto impresso. Una band che non conoscevo, di cui non sapevo niente e che veniva generosamente lodata dai recensori. Il passo successivo è stato scovarla e propormi per occuparmene su True Metal. Parecchi ascolti dopo eccomi qua, è arrivato il mio turno.

Nel frattempo ho scoperto che il chitarrista Toby Knapp è quello degli Onward, che il batterista/cantante Shane Wacaster è quello dei Pandemonium, e che insieme a Mark Sobus al basso formano il trio che dà corso a questo album indubitabilmente figlio del più ortodosso US Power Metal (del resto il nome gli Onward doveva già essere una garanzia), pur arricchito con elementi di stampo vagamente progressive. La bio che accompagna l’album parla di influenze maideniane e priestiane che francamente ho fatto una gran fatica ad individuare ma tant’è, ve la butto lì, così sapete anche questa e ne terrete in debita considerazione ascoltando l’esordio degli americani. Le dieci tracce in scaletta non sono user friendly, non mirano a sbancare in radio, né mettono in evidenza quella carica “melodic” che sempre la bio sottolinea orgogliosamente. I Necrytis, come molte altre band US Power Metal, la melodia la cercano e non la cercano, più interessati alla costruzione di song articolate, dinamiche, elaborate e possibilmente affatto prevedibili. E di prevedibile o scontato al primo ascolto non c’è davvero nulla. Fatta salva una produzione un po’ con la retromarcia, il sound complessivo dei Necrytis rimane tutto fuorché impresso sulle prime. Si capisce che c’è molto da sviscerare e dipanare ma, almeno inizialmente, oltre quella cortina di “complicazioni” non è fisiologicamente possibile addentrarsi.

Devo confessare che dopo aver masticato e rimasticato “Countersighns” non sono riuscito a sposare l’entusiasmo trascinante delle recensioni a cui ho fatto riferimento sopra. I Necrytis sono una band solida e tenace, che non si è risparmiata per assemblare i pezzi che costituiscono il proprio debut, per altro non essendo affatto dei debut-tanti bensì musicisti di rodata esperienza. E però l’album soffre di un lavorìo continuo, di un rimescolamento incessante di elementi che poi non arrivano a bersaglio, come un tiro con l’arco lungamente preparato e bilanciato che però poi manca l’obbiettivo. Molto del “demerito” – amesso che di questo si tratti, tenendo conto che sempre di impressioni personali stiamo parlando – lo ascriverei alla prova di Wacaster dietro al microfono. Nemmeno dopo ripetuti ascolti sono riuscito a metabolizzare il suo modo di cantare. Al di là della timbrica, comunque non aggraziatissima, il drummer canterino sposa linee (a)melodiche del tutto peculiari (vagamente…ma molto vagamente derivanti da un eventuale Warrel Dane in botta da US Power, tanto per dare un’idea), ostinatamente decise a non “chiudere” mai il percorso di note con una ricaduta che possa suonare minimamente familiare ed “accogliente” per chi ascolta. Wacaster spesso e volentieri danza sul filo della stonatura, gorgheggia acidognolo, credo ricorra anche a qualche filtro che acuisce ancora di più la sensazione di straniamento, e a tratti raddoppia la propria traccia vocale, caratterizzandosi per uno “stile” che in tutta onestà ho sofferto moltissimo e che in buona parte mi ha precluso una fruizione libera e disinvolta di “Countersighns”. Aggiungeteci la naturale osticità della architetture e dei riff della band (non aspettatevi chissà quali tempi dispari o turbinii progressivi, semplicemente una propensione all’affettazione e alla farraginosità, implementata ulteriormente dal ricorso a chorus che quasi mai sono “chorus”, nella più banale accezione del termine, ma perlopiù un prolungamento delle strofe) e vi troverete grossomodo al cospetto del pastone dei Necrytis.

Quando guardate un film difficile, astruso, le reazioni possono essere di due tipi: vi dite che il film è troppo complicato e voi non lo avete capito perché non siete all’altezza, oppure ritenete il film un guazzabuglio mal riuscito e basta, senza addossarvi alcuna inadeguatezza o responsabilità. I Necrytis non sono né quello né quell’altro, sono una band con del potenziale che ancora non ha trovato la via d’uscita del labirinto che sta percorrendo portando troppo peso sulle spalle. Un songwriting volutamente entropico ed inviluppato (“God As Electric” è un buon esempio di una certa cocciutaggine nel non voler sembrare troppo facili e prevedibili), penalizzato da un batterista che a mio parere dovrebbe lasciar spazio ad un altro cantante in grado di elevare e potenziare le composizioni. Non dare punti di riferimento, rifuggire programmaticamente l’immaginabile, il calcolabile, il ragionevole non equivale sempre e comunque a genio ed originalità; talvolta è banalmente non essere bravi – o ancora pronti – a tramutare la materia grezza nel prodotto lavorato, fruibile al meglio delle sue possibilità dall’utente finale, che nel nostro caso è l’ascoltatore. Io credo che i Necrytis potrebbero diventare qualsiasi cosa, compresa una grande band, a patto di imbrigliarsi meno e non fustigarsi se per sbaglio dagli amplificatori esce una vaga linea melodica comprensibile in meno di quattordici ascolti.

Marco Tripodi

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