Recensione: Dauðafærð

Di Giuseppe Casafina - 2 Ottobre 2016 - 13:07
Dauðafærð
Band: Pest (Swe)
Etichetta:
Genere: Black 
Anno: 2004
Nazione:
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90

Certe situazioni sono casi ardui.

Perchè prima o poi, nella vita, arriverà quello scontro emozionale nei cui confronti dovrai cercare di dimostrare tutta la tua professionalità, la tua imparzialità e via dicendo: a maggior ragione se questo scontro è rappresentato da un disco che a livello personale reputi un tuo punto fermo della tua personalità musicale.

Sai già di non riuscirci, perchè una tua preferenza personale non deve mai arrivare ad influenzare il voto finale, altrimenti non saresti un buon “analizzatore di emozioni” .

Dicasi anche recensore, o presunto tale.

 

Anno MMIV, 2004 per i poveri comuni mortali.

Dodici anni rispetto ad oggi, nel panorama black metal del periodo girava ancora un po’ di fermento emozionale, necessario a produrre gli ultimi vagiti del black metal più classico come oggi lo conosciamo.

Personalmente ho trovato moltissimi chiamiamoli ‘ultimi testamenti’ del black metal così conosciuto almeno fino all’anno 2007, grazie a dischi di calibro elevatissimo come “Strength and Vision” (Slavia) oppure “Graveforests and Their Shadows” (Walknut, autori di uno dei pesi massimi del black metal atmosferico): questo “Dauðafærð” non fa eccezione ma, anzi, forse si colloca in questa ristrettissima schiera di opere musicali, rigorosamente nere, in grado di aver risvegliato nel sottoscritto, e non solo, quell’aura sospesa tra rabbia e malinconia, sogno e triste presa di coscienza della realtà, tipicamente racchiusa in maniera assolutamente impenetrabile dai dischi della cosiddetta prima era del Black Metal scandinavo.

Le emozioni ed i brividi datami da “De Mysteriis Dom Sathanas”, “Det Som Engang Var”, “Opus Nocturne” e compagnia bella sembravano inarrivabili, ed il relativo scorrere degli anni non faceva altro che costringermi ad allontanarmi dall’idea che null’altro di simile sarebbe mai stato possibile: nulla, nemmeno un misero compromesso.

Ma leggenda vuole che dodici anni fa, un misconosciuto act svedese (tuttora ritenuto ‘cult act’ del genere, sebbene ad un livello chiaramente superiore rispetto ad allora, data la crescente popolarità di questo genere musicale) autore fino ad allora di due dischi solamente discreti, infarciti di un onesto black ‘darkthroniano’, tirò fuori dal cilindro quella magia che non ti aspetti: “Dauðafærð”.

Un disco singolare, in tutti i sensi: un solo pezzo, scritto in linguaggio Norse arcaico (del decimo secolo, suppongono i più esperti in materia), di oltre 20 minuti di durata, quasi fosse un Magno Testamento dei propri autori, una presa di coscienza verso quello che era il black metal stesso, assieme ad una certa visione cruda e misantropica della vita stessa, come da buona tradizione black.

 

‘Lífit es dauðafærð’, vale a dire ‘Life is Journey of Death’.

La vita è un viaggio nei meandri della morte.

Un solo concetto.

 

Il panico. Mi tremarono le mani, all’epoca. Il black metal era la cosa che più rispecchiava il mio animo in quel periodo, e questo pezzo seppe incarnare tutto il mio odio verso quello che mi circondava e che con cui non riuscivo ad entrare in sintonia in quanto non comprensibile, mi sentivo un alieno….almeno fino a quel giorno in cui conobbi questo splendore forgiato nell’odio. Solo odio. Ben celato sotto una fosca aura di epicità, ma sempre tale rimane.

L’odio che, appunto, scorre copioso tra le note di questo testamento, un testamento che pare scolpito nei meandri di un’ epoca ormai arcaica.

Un testamento che è, a sua volta, un qualcosa ribollente con fervido splendore ancora ai giorni nostri: percepisci il sudore, la passione, il tormento di quelle note suonate con la parte più nera del proprio animo, il tutto raccontato in soli 20 minuti. Questi venti minuti potrebbero rappresentare, per molti, il concetto di una vita intera o della loro vita stessa: la visione misantropica di quello scorrere del tempo che comunemente chiamiamo, appunto, vita….questa visione mai è stata così tangibile, momumentale, epicamente maestosa e ‘funereamente viva’ (provando a ‘scolpire’ il termine più adatto). Un viaggio sospeso nel vuoto tra la vita e la morte, fatto di melodie ancestrali, arcane, il tutto avvolto nel buio della notte, illuminati solo dalla fioca luce della luna piena: è davvero impossibile elogiare un’opera di siffatte proporzioni artistiche in una misera descrizione in serie dei suoi singoli momenti, perchè ‘Lífit es dauðafærð’ è davvero un’avventura, da vivere dall’inizio alla fine, da esplorare dei suoi singoli anfratti, rigorosamente oscurati dalle tenebre.

Forse, una volta giunti alla parte finale, introdotta da quella nenia galleggiante in un sogno racchiuso tra ipnotismo e rimembrante tristezza, riusciremo a scorgere uno spiraglio di luce: forse non saremo ancora morti, forse saremo solo rinati. Quell’oscurita forse è solo la vuotezza del nostro animo, gli echi delle foreste solo urla della nostra coscienza atti a ricordarci che il viaggio, in realtà, non avrà mai fine.

La vita è un viaggio nei meandri della morte.

Appunto. Provate a negarlo.

 

Nel mezzo del cammin di nostra vita
mi ritrovai per una selva oscura,
ché la diritta via era smarrita.

Ahi quanto a dir qual era è cosa dura
esta selva selvaggia e aspra e forte
che nel pensier rinova la paura!

Tant’ è amara che poco è più morte;
ma per trattar del ben ch’i’ vi trovai,
dirò de l’altre cose ch’i’ v’ho scorte.

Io non so ben ridir com’ i’ v’intrai,
tant’ era pien di sonno a quel punto
che la verace via abbandonai.

La Divina Commedia (Dante Alighieri)

 

E, nel naufragare tra tutti questi amletici dubbi, forse solo scomodando i primi quattro passi del capolavoro del Maestro Dante Alighieri potrei riuscire ad esprimere appieno quello che questo viaggio vuol significare per ogni comune mortale: un cammino nella vita, la ricerca di una retta via, l’oscurità e forse anche il rimorso.

“Dauðafærð” è, in senso assoluto, una delle massime espressioni artistiche del black metal come concetto di musica, filosofia e stile di vita: racchiuso nei meandri di un linguaggio a noi arcano, in realtà quei versi dispersi nei secoli or sono sono anche fin troppo chiari per capire dove quel sentiero ci porterà….

La vita è una sola e solo rendendoci conto che, giorno dopo giorno, potremmo essere sempre più vicini alla nostra morte, riusciremo a cogliere appieno il senso della vita stessa: traetene voi le vostre personali conclusioni.

 

Una lezione sulla vita, atrraverso il concetto di morte.

Una lezione sulla luce, attraverso un viaggio nel buio.

Nulla sarà mai più lo stesso.

Nulla accade per caso, se a dettare le leggi è unicamente il Magno Assolutismo della Perfezione.

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