Recensione: Dawn

Di Stefano Burini - 29 Giugno 2011 - 0:00
Dawn
Etichetta:
Genere:
Anno: 1995
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80

“Mötley Crüe”, “Dysfunctional”, “Subhuman Race”, ma anche “Slang”, “Into The Now” e “Dawn”.
Sia che si trattasse di stelle di prima grandezza come Mötley Crüe, Dokken o Skid Row o di gruppi di seconda fascia, come Harem Scarem e Danger Danger, i lavori dati alla luce tra l’inizio degli anni ’90 e la metà dei duemila dalle band che hanno fatto la storia (artistica e commerciale) dell’hard ‘n’ heavy negli anni ’80, vengono ricordati il più delle volte dagli appassionati come solenni fiaschi.

Le motivazioni addotte sono fondamentalmente le medesime: i fan e la critica più conservatrice tendono ad associare determinate band a particolari correnti musicali e a specifiche sonorità, attendendosi di volta in volta lavori sulla scia di quelli che li hanno consacrati e spesso mal sopportando i cambi di rotta, soprattutto quelli che odorano lontano un miglio di opportunismo e di “adeguamento alle mode” nel tentativo di accattivarsi le simpatie delle nuove generazioni senza però chiudere definitivamente la porta ai sostenitori di più vecchia data.

Un equilibrismo evidentemente molto complesso e difficilmente realizzabile, da cui prendono le mosse dischi come “Erase The Slate” e “Dysfunctional” dei Dokken, o l’omonimo dei Mötley Crüe, album che procedono a corrente alternata, in cui la sensazione di fondo è che i musicisti coinvolti non fossero del tutto decisi sulla direzione di marcia da intraprendere e finendo, in realtà, per dare l’impressione di correre con il freno a mano tirato. Questa probabilmente era la reale mancanza di coerenza, più che quella con un passato indubbiamente ingombrante ma che forse con un po’ più di coraggio (scaltrezza?) non sarebbe tornato a condizionare l’allora presente. I Cult, “paraculi” come pochi, ma con classe da vendere, ne sono un perfetto esempio.

Accanto a numerosi esempi di melting pot non del tutto convincenti, tra cui quelli citati in precedenza, se ne possono ripescare anche altri in cui un dosaggio più sapiente degli ingredienti ha permesso di creare lavori più riusciti e a volte addirittura in anticipo sui tempi. Tra di essi chi vi scrive si sente di annoverare “Dawn” dei Danger Danger, uscito nel 1995, in una sorta di epoca di mezzo in cui l’occhio del ciclone grunge/alternative era appena passato squassando il panorama musicale di allora e in cui i pochi superstiti dei big 80’s perseveravano nel tentativo di ammodernare il proprio suono per rimanere in pista.

Quello con i Danger Danger prima maniera, per quanto mi riguarda, è sempre stato un rapporto un po’ complicato: sulla bilancia da un lato Andy Timmons, un chitarrista solista assolutamente fenomenale e tecnicamente superbo nonché grande, grandissimo interprete e in generale una line up molto preparata, priva di punti debolezza; sull’altro piatto un sound per i miei gusti un po’ troppo soft e un songwriting spesso privo di quello slancio che avrebbe potuto elevarli di rango (gente come Bon Jovi, Mr. Big, e Tesla giusto per fare tre nomi eccellenti, semplicemente “ne aveva di più”).

“Dawn”, ci restituiva una seconda incarnazione della band decisamente differente dalla precedente: Timmons e il cantante Ted Poley non erano più della partita e si registrava l’ingresso in squadra del canadese Paul Laine; la nervosa ed esaltante “Helicopter” costituiva un perfetto biglietto da visita per i nuovi Danger Danger: il suono delle chitarre era molto più violento e distorto e la voce potente e rabbiosa di Laine era perfettamente in tema con il nuovo sound fatto di riff minacciosi, ritornelli ossessivi e di un atmosfera complessivamente più cupa ed elettrica.

Sorprendente notare come questo album, ascoltato a oltre 15 anni di distanza abbia un suono assolutamente fresco ed attuale: i Danger Danger avevano tentato, con incredibile anticipo sui tempi, di intraprendere la strada che ha fatto la fortuna ai giorni nostri di gruppi come Nickelback, Theory Of A Deadman e perché no?, Alter Bridge e Shinedown. Mixare in sostanza, il senso della melodia e la cura per gli arrangiamenti e la fase solistica tipica dei Big 80’s con le sonorità, le influenze e le soluzioni stilistiche mutuate da gente come Alice In Chains e Soundgarden.

Le nuove canzoni erano, per la maggior parte, molto riuscite: dalla citata, programmatica, “Helicopter”, all’ancora più alternativeggiante “Crawl”, tesa, diretta, minimale nelle sonorità eppure curata e provvista di un buonissimo assolo, passando per l’altrettanto buona “Mother Mercy”, dal riff hardrockeggiante ma dalle soluzioni vocali fortemente “alternative”, solo “Punching Bag” perde qualcosa in termini di intensità.

“Sorry” è (o dovrebbe essere) una classica power ballad, ma a fare la differenza sono di nuovo le sonorità, chitarre ronzanti e distorte e soprattutto la voce di Laine, ora dolce e melodica, e nel volgere di brevi, vertiginosi, istanti più isterica e incazzosa che mai. Forse una delle tracce su cui maggiormente aleggia il fantasma dei grandissimi Alice In Chains (persino la copertina è giocata sulle stesse tonalità di “Dirt”).

“Drivin’ Sideways” è potentissima, le chitarre ruggiscono e fischiano che è un piacere, Laine si destreggia in maniera perfetta tra le vocals filtrate delle strofe e il suo tipico cantato ruvido ed esaltante nel refrain, di nuovo una traccia che potrebbe essere stata scritta nel 2007 e che risale invece a ben 16 anni fa.

Riecheggiano i Dream Theater di “Voices” in “Goodbye”, un piacevole intermezzo “unplugged” che fa da apripista per “Wide Awake And Dead”, pezzo dalle strofe e dal riff granitici e provvisto di uno dei migliori refrain di tutto l’album oltre che di un assolo di nuovo in stile Alice In Chains.

L’aggraziata “Nobody Cares” è senza dubbio la traccia più solare del lotto, una ballata acustica cantabile e ben confezionata, di nuovo fortemente improntata sulle grandi doti vocali di Paul Laine così come la successiva “Heaven’s Fallin’ Down”, praticamente una “Goodbye” parte 2, in cui il tema melodico pieno e solenne, più anni ’80 che ’90, si contrappone ad un lavoro strumentale di accompagnamento che costruisce atmosfere di matrice Soundgarden, un altro esperimento coraggioso ma piuttosto ben riuscito.

In chiusura, “Hard”, di nuovo tesa, elettrica, un cielo plumbeo squarciato da lampi in lontananza e attraversato da un vento che ti strappa la pelle dalle ossa, l’apoteosi per chi ama queste sonorità. Laine, interpreta da par suo, totalmente a proprio agio con la propria voce aspra e graffiante su questo genere di atmosfere e assistito in maniera impeccabile da una band che “pesta” il giusto, senza dimenticare assoli e arrangiamenti di qualità.

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Tracklist:

01. Helicopter
02. Crawl
03. Punching Bag
04. Mother Mercy
05. Sorry
06. Drivin’ Sideways
07. Goodbye
08. Wide Awake And Dead
09. Nobody Cares
10. Heaven’s Fallin’
11. Hard

Line up:

Paul Laine – Voce, chitarra acustica
Bruno Ravel – Basso, chitarra
Steve West – Batteria

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