Recensione: Deadwing

Di Fabio Quattrosoldi - 5 Maggio 2005 - 0:00
Deadwing
Etichetta:
Genere: Prog Rock 
Anno: 2005
Nazione:
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73

Leviamoci subito il sasso dalla scarpa: ritengo “Deadwing” l’album meno riuscito della carriera dei Porcupine Tree. E’ dall’esordio che la band di Steven Wilson si porta addossa lo scomodo paragone con i padri del rock psichedelico, i Pink Floyd. Le analogie compositive e atmosferiche sono indiscutibili e altrettanto simile è l’evoluzione che nel tempo il sound delle due band ha avuto. Alla ricerca onirica degli esordi, fatta di ritagli di sensazioni e di esplosioni melodiche, si è andata sostituendo una maggiore strutturazione della forma di canzone. Fino a “Signify”, e per certi versi ancora in “Stupid Dream”, l’eloquenza delle melodie era grandiosa. Al primo ascolto, per lo meno per me, è stata folgorazione e sorpresa. Ottime canzoni, sublimi melodie, progressioni strumentali imprevedibili, ma soprattutto, i sentimenti venivano a galla da subito, con spontaneità e freschezza, immutabili ad ogni ascolto.
Con “In Absntia” si è registrato un cambio di rotta. La collaborazione come produttore in campo estremo ha fatto scoprire a Steven Wilson il gusto per l’aggressività e per una scrittura più rigorosa e vincolata negli arrangiamenti. Qua e là affioravano riff prog e certe atmosfere cupe, che la band è riuscita a integrare nel proprio tessuto compositivo con difficoltà e a scapito dell’espressività.
“Deadwing” non si discosta di molto da “In Absentia”, ma non ne ha la stessa ispirazione. Si accentuando le parti metal (perché di metal si parla e non più di hard rock!), con giri di chitarra durissimi per lo standard compositivo della band, e linee di batteria più nervose, con ricorso a parti in doppia cassa. Quando le chitarre rallentano i ritmi si fanno fin troppo pacati e a tratti si scivola nel radiofonico.

La title track è un brano lungo e complesso, forse fin troppo articolato. Tutte le trame chitarristiche sono comunque vincenti, le partiture più dilatate non lasciano facili riferimenti, quelle più dure sono accompagnate magistralmente dalla cattedrale sonora eretta da Barbieri. L’evoluzione del brano è imprevedibile ma di gran gusto. L’intervento solista di Adrian Belew è senz’altro più ispirato di quello di Wilson, che si limita a fare il verso al più anziano collega, ma entrambi si inseriscono bene nell’inquieto tracciato sonoro del brano.
Segue Shallow, il primo singolo estratto dall’album. Il giro di chitarra che apre la song sembra preso dall’album d’esordio degli Audioslave; le linee di tastiera e vocali fugano invece ogni dubbio sulla paternità del pezzo. L’impressione che si ha al primo ascolto è la stessa che resta dopo molti ascolti e cioè quella di un brano di grande energia (è probabilmente il pezzo più heavy scritto ad oggi da Wilson) che non emoziona.
Il singolo europeo, Lazarus, è una ballad intimistica, molto semplice e diretta, costruita intorno a un irresistibile giro di tastiera. Alla fine sarà uno degli episodi miglio riusciti dell’album.
Halo mi ha ricordato molto “Pure Narcotic”, contenuta in “Stupid Dream”, ha la stessa inquietudine, lo stesso incredibile pulsare di basso, lo stesso nervosismo di vocals filtrate. Il riff centrale dà varietà al brano, senza appesantirlo eccessivamente. Bella canzone.
Arriviamo al brano che più mi ha deluso, Arriving some in here but not here. L’inizio è sognante, le linee vocali sono molto personali e l’assolo di chitarra ci restituisce un Wilson finalmente convincente. Al minuto 6:00, però, il pezzo cresce fino a una deflagrazione metallica che lascia basiti. Ci vengono sparati in faccia due minuti di prog metal che non si legano minimamente al resto del brano. Solo l’intervento di Barbieri in accompagnamento riesce a stemperare un po’ l’arroganza delle chitarre e a limitare i danni. Mi piacerebbe sapere cosa passava nella testa di Wilson quando ha realizzato un simile scempio. Il brano si chiude con classe come era cominciato. Peccato, avrebbe potuto essere un capolavoro.
La seguente Melleotron Scratch non brilla certo per ispirazione e tira un po’ la fiacca. E’ uno dei brani della band da passare nel dimenticatoio.
Fra i brani tirati dell’album Open Car è il più riuscito. Intendiamoci, niente di sconvolgente, ma il ritornello è grintoso, pregevolissimo, di quelli che si ficcano in testa dal primo ascolto.
Chiudono l’album due brani di grande respiro e dalle atmosfere molto distese. Le linee melodiche non sono facilmente memorizzabili e richiamano alcune cose dei precedenti lavori dei Porcupine Tree, ma il songwriting è appassionato e con gli ascolti potrebbero rivelarsi due piacevoli sorprese.

A livello di line-up delude solo il batterista Gavin Harrison, rimpiazzo di Chris Maitland a partire da “In Absentia”. Si dimostra un metronomo senza cuore, dotato di tecnica sopraffina (è stato turnista anche per Claudio Baglioni), ma del tutto incapace di sottolineare con feeling le atmosfere più sognanti della band (e non ditemi che non si sente la differenza abissale in termini di espressività fra i due batteristi!).
La produzione è perfetta ed è uno dei punti di forza dell’album. La varietà e qualità di suoni che Wilson estrae può essere di insegnamento per chiunque in campo metal.
In definitiva, “Deadwing” è un buon album che forse può anche piacere. Forse potrà anche piacere molto, ma solo a chi non conosce il vecchi corso della band.

Tracklist:
01. Deadwing
02. Shallow
03. Lazarus
04. Halo
05. Arriving some in here but not here
06. Melleotron Scratch
07. Open Car
08. Start of Something Beautiful
09. Glass Arm Shattering

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