Recensione: Death, Where is Your Sting

Di Stefano Usardi - 3 Novembre 2022 - 14:59
Death, Where is Your Sting
Band: Avatarium
Etichetta: AFM Records
Genere: Doom  Rock 
Anno: 2022
Nazione:
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80

Ormai definitivamente affrancatisi dall’imprinting del fondatore Leif Edling, gli Avatarium si affacciano sul mercato col loro quinto sigillo, “Death, Where is your Sting”, che pur mantenendo un certo legame col passato ci mostra un gruppo capace di correre rischi ed evolversi in modo personale senza snaturare la propria identità. Se è vero che uno dei motivi del mio apprezzamento è da ricercarsi nella prestazione maiuscola di Jennie–Ann Smith – la cui voce lussureggiante spadroneggia per tutto “Death, Where is your Sting” tingendone ogni anfratto coi suoi toni cangianti – sarebbe oltremodo scorretto da parte mia non menzionare il gran lavoro del resto del gruppo (a cominciare dalla chitarra di Marcus Jidell), decisamente in palla e capace di tessere trame sonore non certo meno sfaccettate. Come dicevo prima, nonostante gli Avatarium mantengano la matrice doom nella loro musica non lasciano che le etichette fossilizzino la loro ricerca espressiva: ecco quindi che i nostri decidono di donare ad ogni pezzo di “Death, Where is your Sting” profumi diversi, saltellando dal classico doom metal al folk rock, al progressive fino a certe derive country in odor di anni ’70. Ciò che ne risulta è un lavoro eclettico, emozionale, atmosferico, sofisticato: forse non perfetto, ma che proprio in virtù delle sue presunte imperfezioni brilla per intensità e carica drammatica.

Violini malinconici aprono le danze, seguiti a ruota da basso e piano: “A Love Like Ours” si distende su un tappeto ritmico indolente, elegiaco, spezzato di tanto in tanto da brusche impennate più incombenti. La traccia si sviluppa così, tessendo una trama ipnotica e struggente agevolata dagli svolazzi del violino che donano al tutto il suo tono così decadente e maestoso. L’attacco solenne ed imperioso di “Stockholm” lascia presagire un pezzo più classicamente doom, salvo cedere il passo ad arpeggi di chitarra più distesi che sostengono il registro più sofferto della Smith durante la strofa. Le fiammate incombenti tornano a farsi sentire di tanto in tanto, guardate a vista dal solito violino che ne smorza la carica col suo fare insinuante fino al finale nuovamente imperioso. Un andamento pacato ma non privo di tensione apre la title track, a mio avviso uno dei punti più alti del lavoro: il pezzo, adornato da suoni effettati ed arpeggi distesi, si screzia di profumi folk debitori degli anni ’70 che esplodono nello splendido ritornello, pieno e solare seppur venato di malinconia, e trovano compimento nel finale maestoso. Un fare intimista apre “Psalm for the Living” – da ascoltare insieme a “Psalms for the Dead” dei Candlemass, forse?  – che si sviluppa su un tappeto di melodie soffuse, accennate, su cui la voce si accende di mille tonalità diverse. Un alone di inquietudine pervade tutto il pezzo ma resta spesso sotto la superficie, palesandosi di tanto in tanto grazie a un improvviso ispessimento delle chitarre o a una melodia più tesa e donando al pezzo qualche contrappunto più ansioso. “God is Silent” sembra proseguire quest’opera per via della sua apertura sottotraccia ma si tratta di una falsa pista, visto che il pezzo esplode quasi subito in un classico andamento doom metal, scandito e minaccioso. Echi esotici fanno capolino tra una melodia e l’altra, donando al pezzo il suo profumo desertico e riarso, mentre la sezione centrale ne incrementa per un attimo il dinamismo con toni più sfacciati. L’improvviso stacco che apre l’ultimo terzo col suo fare meditativo cede di nuovo la scena alla componente più arcigna del gruppo, che però chiude la traccia con un ultimo vagito di tranquillità. “Mother Can You Hear Me Now” torna a distendersi su ritmi meno tempestosi, sviluppandosi sui binari della canzone indolente, languida, dominata da melodie placide ma al tempo stesso velate di pathos. Il brano si carica pian piano di stratificazioni sonore, bilanciando i suoi profumi diversi in un unicum sofisticato ed emozionale, sfociando in un rock crepuscolare che ci accompagna fino alla successiva “Nocturne”. Qui i nostri partono subito determinati e confezionano un pezzo teso, fatto di riff burrascosi spezzati da un ritornello semplice ma enfatico, che trova nelle corde vocali della Smith e in quelle della chitarra carica di feeling di Marcus Jidell la perfetta quadratura del cerchio. Chiude l’album l’affascinante “Trascendent”, una strumentale che si districa tra melodie evocative, fraseggi intimisti al limite del jazz, atmosfere struggenti e repentini picchi di emotività dati dagli innesti decadenti di violino, salvo poi chiudersi su un arpeggio dimesso e malinconico che sfuma nel silenzio per chiudere con un sospiro un signor album. “Death, Where is your Sting” conferma le qualità degli Avatarium e ne offre un’istantanea degna del massimo rispetto: gli svedesi sfornano un lavoro personale, sentito e decisamente ben fatto, che evolve ulteriormente il proprio suono senza per forza snaturarlo e riesce a portarsi a casa il risultato con classe e la giusta dose di carica evocativa.

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