Recensione: Death Will Reign
‘Goreship’.
Così definiscono il proprio credo i californiani Impending Doom; sottolineando con ciò un’indefessa devozione per la malattia del gore-core e tutti i suoi contenuti a base di horror sanguinolento.
Una fedeltà che non si rispecchia soltanto nei testi, ma anche nella musica. Che, sfrondata dagli innesti ambient-horror, per l’appunto, altro non è che deathcore. Di quello duro anzi durissimo, però. La band di Riverside non è di primo pelo: “Death Will Reign” è il quinto full-length di una carriera feconda di produzioni discografiche ed esibizioni live che ne hanno accresciuto l’esperienza dalla nascita targata 2005. Sino ad arrivare ai livelli attuali, in grado di rendere la band stessa in grado di onorare un contratto importante con una major come la SPV/Steamhammer.
Per ciò, il deathcore di “Death Will Reign” è di una consistenza spaventosa, di una pesantezza a volte insostenibile, di una coesione molecolare invincibile. Pur accelerando, a volte, sino ai blast-beats, il sound presenta ben visibili le tracce compositive volte a generare quanta più pressione sonora possibile; circostanza in cui il deathcore appare indicato come pochi altri generi musicali. La lentezza di riff inumani per il loro altissimo peso specifico, ma soprattutto la tremenda discesa negli inferi grazie ai bombardamenti degli stop’n’go fanno, davvero, di “Death Will Reign” un manifesto di quello che potrebbe ipoteticamente definirsi ‘doom-core’. Proprio la title-track, giacché si è in tema, preme inverosimilmente la gabbia toracica con la forza di breakdown tanto profondi quanto ipo-cinetici.
L’idea che hanno avuto i Nostri, allora, per tornare al ‘goreship’, è stata quella di avvolgere l’album con una malsana atmosfera mutuata da quella caratteristica dei film horror/splatter. Una nebbia fitta, opprimente, asfittica, attraversata da rivoli di liquido rosso scuro, dall’odore metallico. Un arricchimento abbastanza invasivo, insomma, del sound tipicamente secco, crudo e tagliente del deathcore. L’aria viziata che si respira fra le tracce alimenta quindi uno stile piuttosto personale, magari non originalissimo ma in ogni caso identificativo di un vigoroso tentativo di liberarsi da dettami musicali spesso e volentieri rispettati con troppa rigidità.
Questa volontà di marchiare a fuoco il proprio stile con qualcosa di meno usuale, tuttavia, deve aver distolto l’ensemble americano dalla cura che si deve porre per ciascuna delle canzoni del platter. Anche a ripetere gli ascolti, cioè, non si riesce a distinguerle più di tanto l’una dall’altra. Fermo restando che al contrario il binomio deathcore/ambient s’insinua ben bene giù nel cervello con la sua aurea malata, i vari brani scivolano via con troppa facilità, non riuscendo a lasciar troppa traccia di sé. Una volta messo a punto l’esatto disegno del proprio sound, pare che gli Impending Doom non abbiano più avuto energie per caratterizzare, pure, i singoli episodi. Tanto è vero che l’unica costruzione davvero avvincente è la suite finale, “The Great Divine”, contenente al suo interno tutti i gustosi ingredienti più sopra menzionati. Sfuriate di blast-beats, come onde spumeggianti, ricoprono le letargiche ritmiche dettate dal riffing, rincorrendole lungo labirintici anfratti; bui, tetri, tenebrosi. Lasciando improvvisamente la scena, infine, a visionari inserti orchestrati.
Il gusto che rimane in bocca, alla fine, è amaro, poiché “The Great Divine” fa risaltare ancor più la modestia del resto dell’opera, intendendo per tale sinonimo l’incapacità di scrivere song che non siano solo e soltanto dei meri segmenti per collegare un inizio e una fine; per dar forma a un disco.
Sufficienza risicata: peccato.
Daniele “dani66” D’Adamo
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