Recensione: DevilDriver

Di Davide Iori - 3 Maggio 2006 - 0:00
DevilDriver
Band: DevilDriver
Etichetta:
Genere:
Anno: 2004
Nazione:
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79

Devildriver, ossia le campane che le streghe usavano per scacciare i demoni. A dire il vero, ascoltando la musica prodotta da questo quintetto, il nome si direbbe totalmente inappropriato, in quanto le 12 canzoni contenute nell’album di debutto di questa formazione sembrano evocare forze diabiliche piuttosto che mandarle via.

Inserendo nel lettore questo CD si viene immediatamente catapultati nel bel mezzo della musica thrash-death di stampo più moderno, che molto deve sia all’eredità degli Slayer sia alla più recente opera dei deathsters europei, senza cedere alla
benché minima velleità melodica. Canzoni corte, dirette e dall’impatto simile a quello di un tram in piena faccia è ciò che ci si aspetta e, lasciatemelo dire, non si rimane minimamente delusi.

Si parte con Nothing’s Wrong e si viene immediatamente accolti dal più classico tremolo picking, a cui segue un urlo di
Dez che ci fa subito capire che ci troviamo davanti ad una formazione di tutto rispetto, dotata di tutte le credenziali per farsi valere in un ambiente ad oggi molto affollato, se non addirittura sovrabbondante di gruppi. La rabbia ci viene sputata in faccia attraverso uno dei più bei growl che il mondo del metal abbia da offrire oggi (forse assieme a quello di Michael Stanne) e la batteria ci trasporta in un vortice di odio che si conclude in soli 2 minuti e 37 secondi.

Non un attimo di respiro ed un arpeggio di chitarra ci introduce a quello che, a mio modo di vedere, è l’episodio più fortunato dell’intero album: I Could Care Less. Dez questa volta se la prende comoda e si concede un’intro in crescendo con una voce subdola e quasi sussurrata, ma non temete: bastano una trentina di secondi e le chitarre irrompono in una ritmica furiosa che ci guida alla strofa.
Headbanging d’obbligo qui, per non dire di peggio. Nulla è concesso al di fuori di ciò che possa contribuire a rendere ancora più palese la dimensione demoniaca e malvagia che questo album vuole comunicare: niente assoli quindi, niente digressioni strumentali. Voce e batteria si impongono all’attenzione dell’ascoltatore come parti necessarie del tutto e qui vorrei spendere un elogio per
John Boecklin, che ha il merito di realizzare un drumming perfetto per questo tipo di musica, che attinge da due tipi di sonorità diverse, sebbene affini. Non un accenno di blastbeat viene avvertito in questo album, ma piuttosto il batterista si concentra sul mantenimento del groove (cosa necessaria per invitare il pubblico all’headbanging), giocando prevalentemente di doppio pedale, mentre il rullante è sempre li a battere il tempo come il martello di un fabbro. Tecnica invidiabile naturalmente, ma questo non è una novità, non in questo ambiente oramai. Non pervenuto o quasi è invece il basso, ma d’altronde, con chitarre accordate così in basso, cosa si può pretendere?

Dopo la coppia iniziale di canzoni si è oramai catapultati in una dimensione sfrenata e rabbiosa che porta l’ascoltatore a concentrarsi più su suoni, cantato e groove piuttosto che sulle canzoni vere e proprie e questo è un bene, considerando il fatto che il disco dopo un po’ comincia ad essere ripetitivo. Ebbene si, una volta trovata la formula vincente Dez e i suoi ci si attaccano come calamite ad un frigorifero e la ripresentano in tutte le salse: dal mid-tempo cadenzato, alla canzone furiosa che si regge su velocità altissime, alla song dove i cambi di tempo la fanno da padroni. Oh, intendiamoci: praticamente ogni traccia di questo platter ha qualcosa da dire. In particolare mi sento di citare “I dreamed I died“, “Revelation Machine“, “Knee deep“, “Swinging the dead” e la splendida “What does it take” dove ancora l’accoppiata fondamentale batteria-voce fa sfracelli e dove le chitarre si concedono anche una breve digressione strumentale che potrebbe assomigliare ad un assolo. Ma se è la varietà ciò che cercate in un disco (ammesso che al giorno d’oggi escano ancora dischi veramente vari) allora non è qui che la troverete.

In conclusione, ci troviamo davanti ad un ottimo lavoro, prodotto alla perfezione e suonato con altrettanta cura, dove la band trova una formula compositiva diretta ed assolutamente efficace che coinvolge, prende e tritura le orecchie come il metallo di una certa risma dovrebbe sempre fare, mentre invece ad oggi spesso ci troviamo davanti a dischi grezzi a parole e patinati nei fatti. Come ho già detto da questa formula compositiva i nostri cinque fanno poi molta fatica a staccarsi, e ciò fa in modo che, sebbene le canzoni siano tutte belle, il disco perda in valutazione complessiva. Il fatto che le tracce siano molto corte e che la formula stessa sia in se davvero valida tuttavia lascia scorrere il CD con una facilità impressionante, in modo che voi possiate nutrire la vostra rabbia per molti ascolti prima di stancarvi di esso.

Se il vostro capo vi ha appena licenziato senza giusta causa, con un preavviso di due giorni e voi volete dimostrargli tutta la vostra “stima” regalategli questo CD. Avrete raggiunto lo scopo, assicurato.

Best song: I Could Care Less — 95/100
Worst song: Die (and die now) — 65/100

Tracklist:
1- Nothing’s Wrong?
2- I Could Care Less
3- Die (And Die Now)
4- I Dreamed I Died
5- Cry For Me Sky
6- The Mountain
7- Knee Deep
8- What Does It Take
9- Swinging The Dead
10- Revelation Machine
11- Meet The Wretched
12- Devil’s Son

Formazione:
Dez Fafara – voce
Mike Spreitzer – chitarra
Jeff Kendrick – chitarra
Jon Miller – basso
John Boecklin – batteria

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