Recensione: Dhyana

Di Daniele D'Adamo - 21 Settembre 2018 - 18:42
Dhyana
Band: MaYan
Etichetta:
Genere: Death 
Anno: 2018
Nazione:
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90

Nati nel 2010 per mano del chitarrista Mark Jansen (Epica, ex-Infernorama, ex-Sahara Dust, Universal Mind Project) e del tastierista Jack Driessen (ex-After Forever), i MaYan hanno all’attivo tre full-length di cui l’ultimo nato in casa Nuclear Blast Records, “Dhyana”, è l’oggetto della presente recensione.

Loro particolarità, la rotazione della formazione che, a causa degli impegni dei vari musicisti con le loro rispettive band madri, li obbliga a presentare sempre delle nuove line-up, concepite tuttavia per mantenere integro il massimo della qualità sia in studio, sia sul palco ma, ancora prima, uno stile unico e immediatamente riconoscibile.

Con una campagna di finanziamento, inoltre, per “Dhyana” è stato possibile avvalersi delle prestazioni di un’orchestra reale e non digitale, la The City Of Prague Philharmonic Orchestra, una delle più blasonate a livello mondiale, avendo peraltro collaborato con i Dimmu Borgir per il loro “Death Cult Armageddon”.

Una premessa assolutamente imprescindibile, questa, per prendere confidenza con l’universo-MaYan ed entrare con cognizione di causa, quindi, nel coloratissimo e caleidoscopico cosmo di “Dhyana”.

Occorre evidenziare subito che definire death ciò che i MaYan mettono in pista è assolutamente, clamorosamente riduttivo. Certo, l’incipit dell’opener-track, ‘The Rhythm of Freedom’, è violentissimo, rasato da poderosi riff di chitarra che volano sulle ali di scatenati blast-beats e fulminei quattro-quarti, pilotato dalla roca ugola di George Oosthoek, capace di regolare un’emissione oscillante fra screaming e growling. Metallo fumante, rovente, bollente.

Il suono è quindi titanico, monumentale, gigantesco. Indescrivibili apporti di musica sinfonica proiettano l’immaginazione lontano, lontanissimo, a calpestare mondi immaginari dai coloratissimi elementi naturali. L’esplosione musicale è terrificante, fra scale neoclassiche e cori femminili, unite alla componente sia elettrica, sia orchestrale, per una muraglia di suono sterminata, dai limiti pressoché indefiniti. Sferzate di musica piena, robusta, corposa giungono in continuazione all’ascoltatore, che si presume sia tramortito in occasione dei primi ascolti.

Poi, proseguendo nell’iterazione con il platter, la mente si abitua a poco a poco al ciclopico iceberg di musica che, nell’angolo dietdro che delimita le direzioni spaziali, trova buchi e anfratti da riempire in ogni dove. Il tutto condito da una chiara sensazione di totale sottomissione alla furia dello sterminato genio di Mark Jansen, uno dei migliori compositori di metal moderno, senza ombra di dubbio.

Poiché le canzoni, simili a singole sinfonie che si legano le une alle altre per generare l’immensa Opera che è “Dhyana”, sono tutte perfettamente memorizzabili, tutte perfettamente leggibili nella loro possente maestosità, nella loro totale musicalità. Segno di ingegnosa capacità di scrittura.

A mano a mano che si procede nel viaggio che trasla chi ascolta dalla ridetta ‘The Rhythm of Freedom’ a ‘Set Me Free’, ogni brano prende forma reale per penetrare a fondo e per sempre nell’anima, nel pensiero, nella mente.

Stupefacenti opere d’arte come ‘Saints Don’t Die’, interpretata in primo piano anche dalle auliche voci di Laura Macrì e Marcela Bovio, sfoderano gloriosa magnificenza arrivando a toccare altissime vette di lirismo assoluto. La grandiosa impetuosità della musica classica unitamente alla rudezza del death metal formano un binomio formidabile, in grado di giungere a livelli quasi inumani di potenza; entrambi miscelati alla perfezione grazie al talento smisurato di Jansen.

A questo punto, svelata la componente-base che alimenta il sacro furore di “Dhyana”, appare superfluo citare ogni suo singolo frammento, poiché sarà piacere di chi ascolta godere di uno spettacolo tanto solenne quanto accattivante. Come dimostra, in ultimo, quella che potrebbe essere definita come la hit del combo olandese: l’incredibile suite ‘The Illusory Self’, brano incontenibile nella sua statuaria vigoria, il cui leitmotiv diviene motivo di tormentato andirivieni nel cervello di chiunque avrà la fortuna di far suo “Dhyana”.

Sì, perché trattasi di capolavoro.

Daniele “dani66” D’Adamo

 

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