Recensione: Divided
Quando si parla di progressive-metal, si entra in un mondo molto particolare e variegato, un panorama talmente vasto ed eterogeneo che molto spesso tende a relegare nell’anonimato gruppi che meriterebbero ben altra sorte. E’ questo il caso dei Lemur Voice, band olandese capitanata dall’attuale chitarrista dei Sun Caged (nuova promessa del circuito prog-metal, in procinto di pubblicare il secondo album dopo l’ottimo disco d’esordio omonimo), Marcel Coenen, axeman eclettico e dotato non solo della solita tecnica superlativa, ma anche di grande gusto musicale.
Un gusto che traspare chiaramente sin dalle prime note di questo Divided, secondo ed ultimo disco della band olandese (che ha posto fine alla propria carriera nel 2000 per divergenze musicali interne) dopo il buon Insights, pubblicato nel 1996 sotto etichetta Magna Charta. Ma laddove il platter d’esordio presentava sì un buon prog-metal di chiara derivazione “dreamtheateriana” ma con una certa mancanza di personalità, Divided propone fin da subito un sound rinnovato, più raffinato ed attento ad offrire all’ascoltatore continui spunti creativi, grazie al grande impatto atmosferico offerto dalle tastiere di Franck Faber, ad una sezione ritmica mai banale e molto dinamica, ed al grande apporto di Coenen alla chitarra. Quest’ultimo infatti rinuncia alla solita quantità industriale di assoli che caratterizza molti dischi progmetal, dedicando invece il suo talento ad una ricerca sonora dalle mille sfaccettature, capace di passare da momenti durissimi a partiture sospese tra jazz e fusion, che ricamano splendidamente quanto costruito dal perpetuo movimento del basso di Barend Tromp (anche lui già coinvolto in passato in ambito progressive con gli Arabesque).
Emblematica in tal senso è la traccia d’esordio, una Solilocide che regala da subito la potente ed evocativa voce di Gregor Van der Loo, altro valore aggiunto di questo album. Una voce possente, a suo agio sia nelle tonalità più alte che nelle interpretazioni più profonde. Il brano scorre via piacevolmente, grazie al riff granitico di Coenen, che ci delizia anche con un vertiginoso solo sul finale di canzone, supportato al meglio dalla doppia cassa di Van de Vouw, mai scontato neanche nelle parti più lineari di batteria. E la sezione ritmica è ancora alla ribalta nella traccia seguente, una Universal Roots lanciata proprio dalla micidiale accoppiata Tromp-Van de Vouw, che lascia poi spazio ad un breve solo di tastiera che si lega alla strofa principale. Un brano intenso, con un testo a metà tra il filosofico e l’introspettivo (“I miss you, but I don’t know who you are I miss you, show yourself to me I want to go back Back to the world without a body To my universal roots” intona Van der Loo quasi disperatamente), caratterizzato da continui cambi di tempo in un contesto ritmico sempre piuttosto cadenzato, a creare un’atmosfera sospesa nel vuoto e lacerata dalla cascata di note di Coenen.
All Of Me dimostra ancora una volta come i Lemur Voice puntino più a catturare l’ascoltatore con brani melodici ed accattivanti piuttosto che con mere dimostrazioni di tecnica fini a sè stesse. Apprezzabile come sempre l’off tempo utilizzato per creare un tessuto musicale orecchiabile ma anche molto intenso. Si arriva così al brano più lungo di tutto il disco, gli eccitanti 10 minuti e 44 secondi di Childhood Facade, dove si fa fatica ad individuare un filo conduttore, tante sono le variazioni presenti a livello ritmico. Non c’è dubbio che qui la band dia il meglio di sè, a partire dai devastanti acuti di Van der Loo, passando per le fasi strumentali, dove imperversano aperture melodiche sognanti che si trasformano nuovamente in trame decisamente più heavy, in un susseguirsi di creazioni sonore vicine alla fusion moderna, con barlumi di chitarra acustica e tracce di effetti New-Age. Decisamente più aggressiva la seguente Parvedian Trust, caratterizzata da una accattivante ritmica spezzata nella quale si impone il basso di Tromp, mentre Coenen rincorre gli altri strumenti con una chitarra tagliente e Van der Loo si lascia andare ad inconsuete urla lancinanti. Se un appunto si può fare alla prestazione del cantante olandese, è quello di sposarsi sì al meglio col sound dei Lemur Voice ma di crearsi anche una sorta di mondo parallelo, all’interno del quale la sua tonalità a tratti sembra non curarsi molto dei cambiamenti strumentali, rimanendo sul suo standard. Un particolare che limita in qualche modo il risultato finale, che rimane comunque eccellente.
E’ tempo di calmare le acque e Where the Cradle Cries è davvero adatta allo scopo: una pseudo-ballad molto piacevole, anche se non freschissima, dal mood gradevole e dal testo piuttosto singolare, forse una riflessione sulla fragilità della vita di un bambino. Si arriva così all’altro “super-brano” del disco, la intricata Lethe’s Bowl, che però rinuncia alla componente melodica preferendole una sferzata di energia guidata ancora una volta dalle strutture ritmiche della premiata ditta Tromp – Van de Vouw, che getta le fondamenta per il lavoro frenetico della chitarra di Coenen, mentre Faber si diverte a variare i suoi suoni per ispessire un brano già molto sostanzioso. Impossibile non rievocare i Queensryche ascoltando il refrain di questa evocativa traccia, un piccolo bignami del progressive metal per idee e struttura. New Yanini invece lascia spazio a sperimentazioni pseudo-etniche, nelle quali si inseriscono con grande armonia le ricercate sonorità di Faber, i fraseggi preziosi di Coenen ed il drumming dinamico e coinvolgente di Van de Vouw, dando vita ad un brano quasi ayurvedico e di grande impatto emotivo. E’ il preludio alla title-track, una Divided che ancora una volta incarna nel migliore dei modi lo spirito dei Lemur Voice, alternando passaggi jazz-rock a momenti decisamente più heavy, in un connubio tremendamente moderno ed originale che conferma una volta di più la grande abilità compositiva di questa band.
Il combo olandese ci regala poi una inattesa e sorprendente quanto coraggiosa cover di un brano storico di Michael Jackson: la Beat It proposta da Van der Loo e soci è originale, divertente e d’impatto, giocando sul contrasto tra la ritmica hard rock principale e l’interludio jazzy (con tanto di sax!) che fa capolino all’improvviso, donando al brano un sapore tutto nuovo, con lo schizofrenico assolo di Coenen a fare da ciliegina sulla torta. Una delle migliori cover che io abbia mai potuto ascoltare. Il disco si chiude con un altro brano interamente strumentale, dal forte aroma New-Age: Sticks in Space è il piccolo momento di gloria di Barend Tromp, che col suo Chapman Stick dipinge, con l’aiuto dei suoni elettronici di Faber e Coenen, un coinvolgente ed ipnotico sigillo sonoro che chiude un album davvero entusiasmante.
I Lemur Voice erano tutto questo, creatori di un progressive metal diverso dal solito, ricco di atmosfere,di substrati emozionali ed emozionanti, capace di accostare con efficacia melodie di grande impatto a costruzioni ritmiche tanto sofisticate quanto dannatamente accattivanti. Un must per chiunque apprezzi questo tipo di musica, una scoperta forse per molti appassionati di sonorità progressive, una ri-scoperta, mi auguro, per chi avesse gettato nel dimenticatoio una band che avrebbe meritato ben altro futuro. Nel frattempo, ripongo le mie speranze nel nuovo progetto made in Coenen, quei Sun Caged che a breve sforneranno il loro secondo album. Buon ascolto.
Ferruccio Battini
Line-up:
Gregoor Van der Loo / vocals
Marcel Coenen / guitars
Barend Tromp / bass – Chapman stick
Franck Faber / keyboards – piano
Nathan Van de Vouw / drums
Tracklist:
1. Solilocide
2. Universal roots
3. All fo me
4. Childhood facade
5. Parvedian trust
6. When the cradle cries
7. Lethes’ bowl
8. New Yanini
9. Divided
10. Beat it
11. Sticks in Space