Recensione: Dread Reaver

Di Gianluca Fontanesi - 23 Marzo 2022 - 0:59
Dread Reaver
Band: Abbath
Etichetta: Season Of Mist
Genere: Black 
Anno: 2022
Nazione:
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60

La carriera solita di Abbath, giunta ormai al terzo album, è sempre stata onesta ma oggettivamente mai memorabile. I due album precedenti offrivano sì grandi momenti ma anche episodi poco ispirati e anonimi, contornati da produzioni mai all’altezza. Stavolta in questo senso si è fatto il massimo: Dread River finalmente ha i suoni che dovrebbe avere un disco del genere e il tutto ne guadagna eccome. Come vedremo, però, i problemi saranno altri.

Il disco in realtà parte non bene ma benissimo con Acid Haze, che è uno dei brani migliori scritti dal norvegese negli ultimi album: gran tiro, ritornello tamarro al punto giusto ed headbanging garantito sono ingredienti che dal vivo faranno un macello. Purtroppo però l’idillio dura pochissimo, perché vengono poi servite due canzoni francamente impresentabili come Scarred Core e Dream Cull. La prima non cambia mai tempo di batteria per tutta la sua durata e arriva ad annoiare quasi subito, la seconda invece fa ancora peggio con un’illusoria intro acustica che sfocia in un mid tempo a livello vocale irriconoscibile. Dread Reaver, è giusto che a questo punto lo sappiate, non è un disco black. O meglio, non completamente. Quello che Abbath in questa sede prova a fare è del black’n’roll, fallendo miseramente. A livello vocale non ci siamo proprio, si scimmiotta Lemmy in maniera becera e inconcludente, e i brani composti in questo stile proprio non girano.

Myrmidon nella sua prima metà è un brano spettacolare; poi, non si capisce per quale motivo, accelera in maniera brusca e insensata senza più riprendere l’ottimo ritornello e andando a finire in un simil-Motörhead. Scelta inspiegabile. The Deep Unbound e Septentrion sono due buoni brani: uno aggressivo in maniera coerente, con cambi di tempo e umori finalmente all’altezza e un secondo che rallenta le ostilità offrendo un mood arcigno e da fiordo periferia.

Trapped Under Ice è una cover dei Metallica mentre The Book Of Breath riporta il disco su binari più consoni e devastanti. Anche qui il tiro è notevole e di fortissima presa live, tranne il ponte acustico che è totalmente fuori contesto. Si chiude con la titletrack, terza e fortunatamente ultima, bruttura dell’album. Anche qui Abbath è vocalmente irriconoscibile e rende un brano già poco memorabile a livello strumentale un tasto skip praticamente obbligato. Velo pietoso sullo spoken world verso il finale.

Dread River è un disco che mette in chiaro due cose: la prima è che Abbath il black metal lo sa fare bene ed è ancora in grado di comporre ottimi brani; la seconda è che Abbath il black’n roll non dovrebbe proprio farlo. Arriva persino ad essere fastidioso come tutti i cambi vocali: quella timbrica pseudo scream non ha senso, di Lemmy ce n’è uno solo e gli I erano un’altra cosa. Non è comunque tutto da buttare, ma si ha spesso l’impressione che questo sia un disco composto in fretta e furia senza essere ben stato rifinito. I brani sono anche zeppi di assoli, non che sia un difetto, ma sembra che si voglia sempre arrivare a quello perdendo però il succo del discorso. Come detto, la produzione è finalmente ottima anche se il mix a volte non convince rendendo poco percepibili alcune cose.

Mezzo passo falso quindi, per quel che ci riguarda; comprensibile una svolta stilistica dopo tanti anni di battaglie nel nord, speriamo però che ne venga compreso anche il fallimento e che si ritorni a fare del sano black metal. Se poi Horgh e Demonaz risvegliassero la bestia, allora sì che sarebbero dolori!

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