Recensione: Empire Of The Undead

Di Roberto Gelmi - 6 Aprile 2014 - 19:49
Empire Of The Undead
Band: Gamma Ray
Etichetta:
Genere: Power 
Anno: 2014
Nazione:
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80

Hellbent to the metal
That’s what we are!

Venticinque anni d’onorata carriera, almeno tre capolavori (“Heading For Tomorrow”, “Land Of The Free”, “Somewhere Out In Space”) e una coerenza come poche band storiche: questi i Gamma Ray giunti all’undicesimo album in studio, nato in modo a dir poco sui generis. Archiviato, prima, il compromesso con la label che portò all’EP “Master of Confusion” del 2013, e rimediato, dopo, all’incendio dello studio di registrazione, gli Hammer Studios (un po’ come accaduto ai Virgin Steele di “The Black Light Bacchanalia”) dopo quattro anni dal priestiano “To the metal”, la band di Kai Hansen propone un altro disco sopra le righe, lontano dai fasti degli anni Novanta, ma non troppo dalla prova di forza di “Majestic”.

Le danze si aprono con un opener supponente, “Avalon”, ben nove minuti di metallo venato da echi hard rock. Dopo un incipit semiacustico (che può ricordare quello di “Anywhere in the Galaxy”), si fa largo un incedere tra il marziale e il trasognato, con improvvise accelerazioni. La voce di Kai Hansen ammalia ma non graffia; il ritornello è anthemico, con splash di batteria in controtempo. Lo stacco verso il quarto minuto dà un tocco di ecletticità alla composizione, poi ci pensa un assolo da manuale a farci capire che gli arzilli cinquantenni in campo sanno ancora fare il loro dovere. Trova spazio anche una finta coda e un finale trascinante con arrangiamenti ariosi di tastiera. Con un inizio così memorabile le aspettative sono alle stelle, ma il platter non resta su questi livelli d’eccellenza nell’intera ora di minutaggio.

Si continua, comunque, su ritmi sostenutissimi: “Hellbent” è un inno del combo teutonico alla musica che suonano da più di vent’anni, una vera vocazione di vita. Le ritmiche iniziali richiamano i fasti di “Walls of Jericho”, la doppia cassa abbonda, gli assoli di chitarra che si scambiano Hansen e Richter sono sempre gustosi e il tremolo picking resta marchio di fabbrica del power più genuino. Il coro dimesso in crescendo nella seconda parte del brano aggiunge un tocco di oscurità: siamo decisamente su livelli superiori alla mediocre “To the metal”.
“Pale rider”, brano dal titolo apocalittico, attacca con un groove accattivante: il buon Kai canta in modo strozzato sulle strofe e il ritornello presenta testi non proprio alati («Burn motherfucker, feel the flame! »), che s’avvicinano a quelli della recente “Asshole” degli Helloween. C’è spazio anche per un sample e un acuto terrificante, ma il brano resta tra i meno convincenti della tracklist, pur crescendo con gli ascolti (il refrain vi resterà incollato alle sinapsi per un bel po’ e in sede live fa furore).

“Born to fly” nel riff thrash iniziale ricorda “The serpent’s kiss” dei Symphony X; buone le linee di basso ad opera di Schlächter e il drumwork risulta a tratti maideniano. I testi rievocano il simbolo, tanto caro ad Hansen, dell’aquila che vola libera nel cielo e pare davvero longeva (se pensiamo che un’aquila vive mediamente 25 anni) dopo la sua comparsa nell’88 e su “No world order”. Manca l’originalità, non la qualità e la velocità esecutiva.
Momento meno convincente del platter l’accoppiata “Master of confusion”-“Empire of the Undead”, brani già inclusi nell’EP dell’anno scorso. “Master of Confusion” riecheggia brani come “I want out” e “Garden of the Sinner”; la title-track sembra, invece, una cover di “Exciter” dei Judas Priest, con un intro à la “Burn” dei Deep Purple e un assolo centrale da brividi. Restano pezzi più che discreti e non pregiudicano la caratura complessiva del full-length.

“Time for Deliverance” è una ballad canonica (come la passabile “No need to cry” del 2010), Hansen calca troppo la parte e non raggiunge le vette di “Farewell” e “Pray”, ma è comunque una traccia che si lascia riascoltare. Buono l’assolo bluesy, gli arrangiamenti di pianoforte e il finale strappalacrime.
Neanche il tempo di farsi scappare un sospiro e la successiva “Demonseed” inizia con un sample raccapricciante, con tanto di sussurri orrifici e urla di disperazione. Si tratta di un brano più che cattivo, con testi tirati e una seconda parte in crescendo, dove ci starebbe bene Ralf Scheepers, con i suoi acuti stellari, a ripetere «Where do we go?».
“Seven” attacca con una cadenza originale, poi le ritmiche si fanno subito giocose, nonostante le liriche si riferiscano al valore cabalistico del numero sette, già ampiamente sfruttato dai cugini Helloween. Brano canonico che nel prosieguo propone un altro marchio di fabbrica dei Rayz, il recitato di Kai Hansen (che si rifà come minimo a “Victim of Fate”) su parte ritmica ridotta all’essenziale.

Finale con i botti: “I will return” pare “March of time” nei secondi d’avvio! Non mancano linee vocali proibitive e doppia cassa a iosa, insieme a un ritornello con cori epici. D’altra parte sia la band di Hansen, che quella di Weikath, hanno sempre collocato tracce memorabili in chiusura di platter, anche quando non si tratta di suite (penso, per i primi, a “The Spirit”, “Afterlife”, “Shine on”, “Chasing Shadows”; per i secondi a “Still We Go”, “Midnight Sun”, “Silent Rain”, “Far in the Future”). Se compare pure un assolo di due minuti con tanto di tapping, non sappiamo proprio cosa chiedere di più per un disco power…
Ottima la bonus track “Built a World”, con un tiro melodico da non sottovalutare, drumwork incisivo e refrain catchy.

“Empire of the Undead” è un album solido, ben suonato e con alcune canzoni di tutto rispetto (“Avalon”, “Hellbent”, “I will return”).
Il nuovo batterista Michael Ehré (ex-Metallium, ex-Firewind) non fa pesare la defezione del fabbro Zimmerman, ma non porta nemmeno un minimo d’innovazione, come invece tenta di fare il nuovo drummer degli Stratovarius, Rolf Pilve.

La vera forza dei Gamma Ray resta il sapiente eclettismo delle atmosfere messo in campo, che comprendono cattiveria e solennità, lo scanzonato e l’onirico. I testi, tra l’apocalittico e l’epico, sono più che adeguati per un genere come quello proposto dal mastermind Kai Hansen (ma quelli di Deris & Co. restano, a mio avviso, più ispirati).
Album sui livelli di “Delivering the Black” dei Primal Fear, ma non su quelli d’eccezione di “Beyond” dei Freedom Call. Per gli amanti dei Rayz un disco d’avere, nonostante la terribile copertina, in tre versioni ugualmente inguardabili.

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