Recensione: Era

Di Marco Migliorelli - 2 Ottobre 2012 - 0:00
Era
Band: Elvenking
Etichetta:
Genere:
Anno: 2012
Nazione:
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84

C’è un piccolo chiaro minuto in questo nuovo disco degli Elvenking che con la luce remota di un meriggio assolato e la leggerezza di due voci ed un afflato acustico, degnissimo prosecutore di altre loro minute e caratteristiche introspezioni sonore (l’ormai classica “On a morning dew” come anche “Totentanz” ne sono valide dimostrazioni) va a raccontarci della profondità delle cose, delle creature e dell’abitare questo nostro tempo. La risata è quella di un folletto, il ritmo della più allegra giga; il titolo, emblematicamente, “A song for the people”.

Staring at the horizon with all years that weigh
Said old Tom Walton: “Life’s not here to wait”
And cheering and toasting with no so clear mind
“To pay and to die there’s always time”

Un messaggio per la gente; una parabola minuta incisione nel panorama di un disco pieno di chiaroscuri e  testualmente e creativamente improntato, così pare a chi scrive, sulla scoperta del tremulo lato dell’incertezza e della debolezza a contraddistinguerci non solo banalmente nel difetto per eccellenza, nella mancanza che il giudizio socialmente imputa all’individuo (significativa “I am the Monster”, sulla figura di elephant man ed impreziosita dal duetto Damna/Jon Oliva), quanto anche su come il debole e l’incerto vengano a connotare la natura umana nell’ipotesi del coraggio, di uno scopo e della lotta nonostante tutto.

Don’t fear the horizon
Trust me, a road will lead you there
And all of your love’s going to remain untouched
It’s you certainty, whenever you go

Anno 2012, ancora un giro di ruota intorno ad Aydan e Damnagoras, ad oggi gli unici due rimasti della formazione originaria. “La compagnia si scioglie?” parafasando celebri tolkieniane. No, non v’è commiato sulle rive dell’Anduin. Gli Elvenking restano, forti della memoria quanto dell’unico tempo veramente possibile, l’istante del presente.
Salutiamo Gorlan al basso e Zender alla batteria per rispettivamente, Jakob e Symhon. Raphael e Lethien ormai pienamente inseriti anche creativamente nella formazione.
Una produzione estremamente appagante all’ascolto valorizza da subito le novità sonore e se il basso di Jakob sovente mette a nudo le sue tracce, è significativo l’imperio gentile ma serrato del drumming solidissimo del giovane Symhon.
L’attacco di “The loser”, prima di una dozzina di canzoni è già presagio di quanto andiamo dicendo. Symohn è anche, metaforicamente certo, una risposta a chi ha guardato con perplessità ad alcune influenze hard ‘n heavy “troppo” melodiche nelle ultime prove in studio del gruppo. Il potenziale di questo batterista non si esaurisce nella riproposizione di tempi più lineari e lenti, nei quali pure si trova a suo agio (una su tutte , “Forget me not”) ed ha al contrario molto da dare su ritmiche serrate e tempi sostenuti. Ascoltare per credere la già citata “The loser” che compensa la mancanza netta del growling di Damna con la scelta di canzoni di media lunghezza ricchissime, è il caso di dirlo, al loro interno di moteplici sfaccettature sonore: il gusto per la melodia ed il ritornello accompagnato da un drumming serrato che nel finale sfocia in puro blastbeat.
Il suggerimento è in questo senso, come dire, di rivedere le proprie convinzioni a chi può aver definito gli Elvenking un gruppo pop.

Era non è un disco di transizione ma un disco ambizioso, nell’accezione più sana e riuscita del termine. Semplicità e ispirazione ne contraddistinguono le scelte compositive e sonore.
La vera bacchetta di Merlino è in questo frangente la produzione. Il missaggio di Nino Laurenne valorizza nel modo più assoluto e ripeto con gusto, appagante, tutto quanto abita l’ora del disco e con una varietà che desta quantomeno interesse e curiosità ad un primo ascolto.
Il missaggio fornisce anche delle chiare risposte. Il violino di Lethien torna incontrovertibilmente a caratterizzare più di un passaggio, complice anche la varietà non solo nel minutaggio ma anche nell’intrinsecità di molte canzoni.
“Through the wolf’s eyes” ne è piena dimostrazione; qui il violino conferisce alla strofa un sapore malinconico e al contempo fiero, intenso che fin da subito rende caro il brano.
Maestri d’orpelli, così mi sento di definire quest’anno gli Elvenking.
Maestri la cui abilità risiede però anche nel non saper perdere in nome del dettaglio la visione emotiva d’insieme di un brano. Questa qualità convince nel pieno gusto per il ritornello.
Ritornelli ispirati la cui facilità non sfocia quasi mai nella scontatezza e nel prevedibile. Eccola la ricchezza della semplicità ed anche un inganno, perchè intorno a quella melodia centrata si sviluppa in verticale quanto va a valorizzare l’idea di Era come “disco ambizioso” e non certamente facile nel suo strutturarsi.
Le orchestrazioni, come contesto sonoro che il missaggio decisivamente valorizza, non solo danno profondità narrativa ai brani ma anche mostrano nei fatti quanto da sempre è caro ad Aydan: concentrare il meglio in un minutaggio ridotto senza veramente disperdere un’idea, o più comunemente una fortunata intuizione.

Due anime abitano Era, l’acustico folkloristico e l’elettrico. Se un brano come “Through the wolf’s eyes” torna a farci pensare quanto sarebbe entusiasmante una “Not my final song” in versione elettrica per via di una perfetta mistura di queste due anime; d’altra parte “The time of your life”. Si presenta come un solismo di Damnagoras che ne è autore completo, testo e musica.
Eccola: violino, chitarra acustica e percussioni.
Il missaggio, camaleontico, rimuove in un istante la percezione d’ascoltare un disco elettrico (power-folk- heavy folk, hard’n heavy…fate vobis per quel che conta).
Preziosa sensazione che la malinconia del brano accentua e non può non far constatare, con piena convinzione ed un senso di “sorpresa” -che è poi quanto conta sul piano emozionale-, la crescita ulteriore ed il cambiamento nella voce di Damnagoras. Dal growling in The Scythe all’heavy melodico di Red Silent Tides fino a questi 4 minuti “per sola voce” in cui l’interpretazione è veramente tutto. Qualcuno in altra sede ha parlato di vena “blues”, suggerimento che ha trovato favorevole il cantante. Qui vogliamo vederci, senza spingerci oltre e con spontaneità, l’intensità di un cantante folk.
A song for the people.
Questo resta la canzone degli Elvenking. Not for the crowd, non per la folla ma per la gente.
La gente. Le persone.
Ecco allora il significato di questo voler mantenere con piena consapevolezza e le note ce lo sussurrano all’orecchio, amorevole cura e devozione, questa lentezza.
In questa direzione è stata importante -ed ascoltandolo più volte mi sono reso conto quanto-, l’azzeccata collaborazione di Maurizio Cardullo dei Folkstone con flauti e conrnamuse. La piccola conclusiva “Ophale” è un suo piccolo spazio, così ho voluto intenderlo io almeno, una nicchia a chiosa di un lavoro molto più vasto e personale. Consacrazione di una collaborazione felice e decisiva sulla quale non ci si dilunga troppo affinchè non vi siano troppe parole a mediare verso una impressione generale, riguardante l’aspetto folkloristico (e il suo più proprio e schietto “come suona” qui su Era), che l’ascolto soltanto può definire senza troppo semplificare.

Non mancano brani più diretti e immediati la cui accessibilità li rende prede da concerto. “We, animals” e “Walking dead” arrivano ad alleggerire le atmosfere dense di Era. La loro collocazione mediana ottiene quasi ad ogni continuo e completo ascolto l’effetto di rimescolare le carte in tavola; spezzano strategicamente l’assuefazione, nel senso che per contrasto riescono a evitare che passi inosservata quella molteplicità di chiaroscuri sonori su cui Era è improntato. La loro immediatezza è indubbia anche se il vero affondo gli Elvenking lo raggiungono sempre su brani più apparentemente semplici se non più elaborati (non per questo meno diretti). Siam lungi dal parlare di fillers, si tratta piuttosto di una considerazione personale, una preferenza di chi scrive che pure non disconosce il loro sicuro effetto nell’arco di un ascolto completo di Era.

Bene, ci si chiederà allora se gli Elvenking siano tornati alle loro vecchie sonorità. La risposta è che non esiste un passo avanti che non sia in qualche modo anche un ritorno. Un sound non viene distrutto, nella migliore delle ipotesi va mutando.
La batteria torna a sostenere ritmi elevati e serrati. Symhon senza in questo esaurirsi, si presenta egregiamente percorrendo la via che già brani come “Runereader” e “Silence de Mort” non avevano smarrito, con rinnovato vigore. Il violino saprà farsi udire anche dai meno fini d’udito; e non manca nemmeno il gusto di Aydan per la chitarra acustica, vessillifera del “magico” così come gli Elvenking ci hanno abituato a conoscerlo tutte le volte che han scelto di vestire i panni impolverati di viaggio dei cantastorie.
A tanto insieme di tratti familiari fa comunque da contraltare il tempo presente e positivamente. Alla vena più easy che Red Silent Tides si era imposto di approfondire, si accompagna quello che è forse il coronamento di una bella amicizia o così vogliamo vederlo. Dopo aver condiviso il palco in tour anni fa con lui, Jon Oliva compare accanto alla voce di Damnagoras in ben due pezzi di Era.
“I am the monster” e “Forget me not”. Non una presenza totalizzante quella della voce di Oliva; caratterizzante semmai ed è quel che conta. In compiuto accordo con le timbriche di Damnagoras è forse su “Forget me not” che acuisce maggiormente l’effetto “Savatage”. Si tratta di una canzone nata per esser lenta, struggente e volutamente “classica” nei suoi intenti melodici. A detta di chi scrive più riuscita di altre che l’han preceduta, sovente proposte come singolo. Che Oliva subentri accanto al duetto fra  Damnagoras e Netta Dahlberg in un brano simile e per semplificare “meno” Elvenking di I am the monster, rafforza questo effetto “Savatage”; il finale della canzone che matura e si esaurisce nella riproposizione di cori sfalsati a più voci (tanto cari ai Savatage…) ben suggella la dignità del brano.

Che ne è stato infine di Aydan e di Raphael. Vengono da ultimi, loro che ultimi non sono. L’affiatamento delle loro chitarre si è intensificato e son ben lontani i tempi in cui era Aydan ad occuparsi di tutte le partiture. L’intesa dei due chitarristi è un altro pilastro di Era. I due non lesinano sui solos andando a rampicare imprevedibilmente le strutture portanti delle canzoni con soluzioni mai solipsisticamente sfocianti nel tecnicismo, né banali come mestieranti alla loro entrata in scena.
Spetta alle orecchie di ciascuno rinvenirne il novero del disco, qui ci si limiterà e non casualmente, al lavoro delle chitarre sul brano in assoluto più interessate dell’intero album, forse non casualmente il più lungo. “Chronicles of a frozen Era” non deve ingannarvi incantandovi col suo esplosivo rassicurante ed ispirato ritornello. Il tranello è di semplice soluzione se ben ci si accorge che tutta la canzone è una piccola foresta degna delle fiabe dei Grimm.
Tutto qui suona discorde. Discorde rispetto a quanto è più tradizionalmente Elvenking. Certamente non è completa l’assenza di una forte familiarità ma nell’insieme, anche quanto più noto vi si può riscontrare rema in una differente direzione.
Le chitarre, acustica ed elettrica come anche il brano ed il violino tendono a dissolvere nelle nebbie di un enigmatico intermezzo quella che avrebbe potuto essere una canzone “secondo tradizione”. È qui che ulteriormente Aydan e Raphael suggellano la loro intesa. Parliamo poi dello sfondo corale, solenne e pomposo e delle digressioni di chitarra atipiche  quantomeno per il loro sound prima che il violino ed un basso ambiguo e sinuoso spargano fumi sulla scena di un solo che non ha mai, mai trovato posto nemmeno alla lontana in una canzone degli Elvenking. A seguire, una cold breeze di note acustiche in volute di presagio che la sonorità di una spira di vento ricaccia indietro per far posto all’ultima conclusiva bordata del ritornello.

Ebbene, “Ophale” qui chiuderebbe il disco con la sua quiete disarmante, quasi a disperdere quel che troppo brevemente abbiamo ascoltato in “Chronicles of a frozen Era”.
Si tratta di un finale ufficiale, tuttavia non l’unico.
“Greyinside”, traccia aggiunta all’edizione limitata insieme ad una versione di “I am the monster” con la sola voce di Damnagoras, non è per nulla riducibile al rango di mero contorno alle dodici composizioni di Era.
A collocarla fra “The time of your life” e “Chronicles” avrebbe ulteriormente accentuato lo straniamento che solo il suo incipit può sortire se successivo ad un brano lento e introspettivo come quello di cui Damna è autore. D’altra parte avrebbe però anche da subito mostrato notevoli affinità con la stessa “Chronicles”. La matrice è la stessa, “Greyinside” dal ritornello ancora una volta molto ispirato e coinvolgente (di pregio la sua notevole riproposizione con accompagnamento acustico; mi ha ricordato vagamente il miglior Bon Jovi e l’invito qui è a non saltare a facili conclusioni a mezzo di un simile riferimento), spiazza per il suo incipit pesante, né manca un refolo di elettronica (a caldo ho pensato a certe soluzioni strofiche degli In Flames). E poi le chitarre ancora, qui forse in un più slanciato abbandono ludico. Ancora in “Greyinside” c’è tutto se ci si accorge e non è difficile, di come il violino preluda in percussioni al solo a cascata. Brano di pregio e talmente da portarmi a insistere e con forza sull’invito a considerare unicamente l’edizione limitata del disco. Quando di là di vani fronzoli una limited propone una addizione di canzoni ulteriori ben lontane dal somigliare a scarti e più vicine all’esser fuori scaletta per più intricate ragioni, si riesce ancora a vederne una concreta ragion d’essere.

Dunque la conclusione non è che nelle vostre mani, ancora una volta la meta non risiede nel convincersi o nel convincere quanto nel capire. Se è vero che nella musica capire deve essere un desiderio e non un imposizione è a partire da questo desiderio che si vorrebbe procedere ogni volta.
Fra le pagine di Era è per certo possibile. Agli altri la scelta.

Midnight skies
Winter sighs
On morning dews verse of poetry

Reaching heights
Walking miles
To hear your voice reciting

Every word is a verse of pure harmony
Every single one.

Marco Migliorelli                 

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Tracklist:

01. The Loser
02. I Am The Monster
03. Midnight Skies, Winter Sighs
04. A Song For The People
05. Animals
06. Through Wolf’s Eyes
07. Walking Dead
08. Forget-Me-Not
09. Poor Little Baroness
10. The Time Of Your Life
11. Chronicle Of A Frozen Era
12. Ophale

Bonus track:
13. Greyinside
14. I Am The Monster
 

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