Recensione: Everblack

Di Daniele D'Adamo - 4 Giugno 2013 - 18:39
Everblack
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Anno: 2013
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83

 

Puntuali come un orologio svizzero, i The Black Dahlia Murder tornano sul mercato discografico con la nuova creatura, “Everblack”, giusto due anni dopo “Ritual”. La costanza produttiva del combo proveniente dal Michigan, infatti, dà luogo a sei full-length in dodici anni di carriera; media perfetta per consentire il raggiungimento – qualità tecnico/artistiche date per scontate – di una notorietà oltre i confini dell’underground.

Traguardo che, se nei precedenti lavori non era così evidente, appare chiaro e limpido una volta messo sulla graticola il nuovo arrivato. Sia chiaro, però: Trevor Strnad, Ryan Knight e Brian Eschbach – coadiuvati dalla nuova coppia del ritmo Max Lavelle/Alan Cassidy in luogo di Ryan Williams e Shannon Lucas – non si sono messi a scrivere canzoni caratterizzate solo e soltanto da un piglio accattivante giusto per raggiungere i meno adusi alle sonorità più oltranziste del metal. “Everblack”, difatti, ha un suono possente e arcigno, aspro e tagliente come esigono le più avanzate correnti evoluzionistiche del death, cioè quelle si accostano ai durissimi bagliori del *-core. I The Black Dahlia Murder, tuttavia, pur non rinnegando le loro radici melodiche non cadono nella trappola di sfigurare così tanto il proprio stile sì da farlo divenire deathcore alla maniera degli Heaven Shall Burn o metalcore tipo Devil Sold His Soul e compagnia cantante. No: il death metal è death metal, e su questo elementare quanto inamovibile caposaldo i Nostri erigono la loro impressionante struttura fonica. “Everblack”, appunto.     

Nonostante il titolo l’album non propone, come da produzione ultima, un tono particolarmente tetro o dimesso. Tutt’altro. Pur non diventando una palestra per ritmi scoppiettanti a là In Flames, i canonici tre quarti d’ora di musica offrono una buona varietà di brani, comunque vivi e in certi casi addirittura freschi (“Phantom Limb Masturbation”), che accompagnano per mano l’ascoltatore in direzione di lidi meno opprimenti rispetto a quelli soliti. Una scelta magari poco gradita, si può supporre, per i fan più intransigenti del combo americano (“Into The Everblack”) ma che, senz’altro, rende il suo lavoro più snello e meno abbarbicato a un sound ormai trito e ritrito dal quale, se si vuole proseguire sulla propria progressione artistica, occorre prima o poi sganciarsi.

Con ciò, “Everblack” è e resta un poderoso assalto alle membrane timpaniche condotto all’arma bianca da Strnad, in gran forma nel baluginare il suo tremendo, corrosivo, scellerato screaming (che non può far mai dimenticare il black metal…) alternato a un altrettanto folle growling per giungere, in occasione degli ipnotici passaggi seviziati dai blast-beats di Cassidy, sempre e comunque ai limiti dell’empietà (“Every Rope A Noose”). Ma è in occasione dei momenti più intensi dal punto di vista emozionale, come la stupenda, conclusiva “Map Of Scars”, che la formazione di Waterford riesce a esprimere qual qualcosa in più che manca a tanti suoi colleghi. La capacità, cioè, di raggiungere istanti di notevole lirismo e intensità melodica senza mutare le caratteristiche primigenie di un marchio di fabbrica consolidatosi nel corso del tempo.
E, in questo, bisogna dar grande merito a Knight, ormai calatosi con molta dedizione nel ruolo di guitar-hero. Di quelli, attenzione, che non maneggiano la chitarra per fini autocelebrativi ma che, al contrario, affinano la tecnica per metterla a disposizione dell’arte, come dimostra l’eccellente solo di “In Hell Is Where She Waits For Me”; opener dai BPM elevati ma non troppo, crepitante, evidentemente tirata a lucido ma tutt’altro che leggera. In ogni caso, se qualcuno dovesse dubitare della ‘tostaggine’ dei cinque statunitensi, il micidiale riff portante di “Goat Of Departure” e le sue sfuriate della batteria sono lì, a confermare la loro volontà di non smettere di far male alle membrane timpaniche aumentando il livello di pressione sonora oltre i livelli di guardia.  

Per tutto quanto scritto sopra, forse anzi probabilmente, “Everblack” è un’opera di transizione che precede una definitiva maturazione artistica. I The Black Dahlia Murder, infatti, comprovano con questo disco un talento compositivo fuori dalla norma, in grado di proiettare la loro proposta ben oltre la produzione del canonico death metal melodico d’ordinanza che, magari, è spuntato più volte durante la loro attività passata. A prescindere da tale considerazione e ragionando in termini più circoscritti, comunque, non si può che considerare “Everblack” imprescindibile soggetto di una collezione discografica di metal estremo che si rispetti.           

Daniele “dani66” D’Adamo
 

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