Recensione: Family Tree

Di Simone Volponi - 22 Aprile 2018 - 0:01
Family Tree
Etichetta:
Genere: Hard Rock 
Anno: 2018
Nazione:
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75

Si è sempre avuta l’impressione che nei Black Stone Cherry la componente heavy manifestata dal suono moderno adottato fosse un po’ di troppo. La band del Kentucky possiede da sempre una gradazione southern rock e blues di classe che li rende perfetti eredi della tradizione americana forgiata dai vari Lynyrd Skynyrd, Montrose e ZZ Top, in parte tarpata proprio dal voler incanalare il suono nella corrente dell’attuale hard rock metallizzato. Con una serie di cinque album di qualità, i ragazzotti si sono comunque guadagnati una popolarità sempre più crescente, timbrando numerosi show infuocati e riempendo le arene anche in Inghilterra, e quindi l’arrivo di un nuovo lavoro crea notevoli aspettative.
Come il precedente “Kentucky”, i Black Stone Cherry hanno scelto di autoprodurre il nuovo “Family Tree” al Barrick Recording di David Barrick, e di registrare quasi in presa diretta, puntando sull’immediatezza del momento senza troppe sovra-incisioni, mentre il chitarrista e cantante Chris Robertson si è occupato in prima persona del mix. Un approccio casalingo che punta sull’atmosfera familiare proprio come suggerisce il titolo e come è nella natura stessa della band.

Si diceva della componente pesante e moderna che forse andava snellita, ebbene “Family Tree” è un album sì di rock moderno, ma fortemente basato su un carnoso blues e che tira fuori tutto lo spirito southern della band, dove non si risparmiano le sezioni fiati, pianoforti, organi gospel del sud, passaggi di sintetizzatori atmosferici e incursioni nel funk e nel country.
Già l’iniziale “Bad Habit” mostra questo approccio più retro dove non viene risparmiato il groove, la voce piena di Robertson la fa subito da padrone e viene piazzato un bel assolo scintillante. “Burnin” ha un riff stile Aerosmith e in effetti il pezzo non starebbe male in mano a Steven Tyler e soci, ma palesa anche l’ombra dei The Black Crowes con quel gusto pastoso e da prateria.
Il pianoforte boogie spinge la frizzante “New Kinda Feelin’” gravitando nella parte centrale in sostegno dell’assolo così da restare in piena atmosfera ‘70’s. “Carry Me On Down The Road” è un’elegante esempio di rock americano, qualcosa che si poteva sentire uscire a tutto volume da una Chevy El Camino del 1972. Le melodie sono sempre incisive e il lavoro di chitarra mischia il timbro blues con il wah wah in maniera sapiente.
La solarità e il rilassamento che si percepisce in tutto “Family Tree” viene ben rappresentato dall’elegantemente rustica “My Last Breath“, un’ode southern ai legami indissolubili della famiglia fatto di slide e cori soul femminili che accarezzano l’interpretazione calda di Robertson. Uno di quei momenti musicali in cui la luce risplende attraverso gli altoparlanti e sai che tutto andrà bene.
La voce e la chitarra del re delle jam Warren Haynes (Gov’t Mule, Allman Brothers) compaiono sul delta stomp di “Dancing In The Rain” in un tripudio di chitarre che si scambiano gustosi botta e risposta che vorresti proseguissero ancora per un bel po’, dando proprio quel senso di registrazione istintiva tipica del blues. L’integrazione delle voci femminili si ripete in maniera ottima con la classica e festosa “Ain’t Nobody”, dove nella coda finale troviamo bei vocalizzi neri offerti dalla donzella di turno, e nel successivo numero, un momento sorprendente ma che da soddisfazione dal titolo “James Brown“, un bel funk pieno di chitarre wah-wah e voci gospel femminili.
Si può affermare con certezza che i Black Stone Cherry non abbiano sbagliato una singola melodia lungo queste tredici nuove tracce, ogni momento è scolpito con naturalezza ed efficacia, e la band risulta più calda e viscerale rispetto al precedente lavoro. Il concetto di famiglia viene ribadito nel rock muscoloso e spavaldo di “You Got The Blues”, dove Chris Robertson tira in mezzo per il coro il figlio di 5 anni, tanto per dimostrare che buon sangue non mente e insegnargli le buone maniere.

Tre numeri hard rock chiudono il lotto, soprattutto l’efficace titletrack finale, piena di pathos e con un assolo davvero vibrante (accompagnato dall’hammond che dona sempre quel sapore vintage), un ottimo sigillo a un album maturo e denso di armonie dove i Black Stone Cherry raccolgono finalmente la bandiera di un’eredità di per sé pesante, ma necessaria.
Perché il tempo passa, i trend e i suoni spingono verso la modernità, vengono ciclicamente ripescati dal passato e rielaborati nei muri delle produzioni attuale, ma c’è e ci sarà sempre bisogno del sano rock classico proposto con il giusto calore. Non si recupererà mai la magia di un epoca troppo lontana, ma con dischi come “Family Tree” se ne può riassaporare l’idea e l’atmosfera.

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