Recensione: Fields of Blood

Di Stefano Usardi - 29 Maggio 2020 - 5:00
Fields of Blood
Band: Grave Digger
Etichetta: Napalm Records
Genere: Heavy 
Anno: 2020
Nazione:
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73

I Grave Digger celebrano i 40 anni di carriera pubblicando “Fieds of Blood”, loro ventesimo album. Hai detto niente. Il mio ultimo incontro con la storica formazione tedesca risale a quattro anni fa: quando, alla fine di Gennaio, Boltendahl & C. suonarono al (fu) Midian di Cremona in mezzo a una nebbia di quelle degne della Pianura Padana che fu. Uscii dal locale soddisfatto, come sempre dopo aver sentito i teutonici becchini, ma con l’ennesima conferma che i Grave Digger sono il paradigma di un certo tipo di gruppo metal, che si affida alla riproposizione di una formula ben consolidata per tirare avanti senza scossoni. Ormai la proposta dei tedeschi è talmente codificata da essere diventata iconica, assolutamente riconoscibile anche dopo un paio di secondi di ascolto: ritmi pulsanti, tellurici, chitarre affilate ed arcigne, ritornelli tamarri e cori poderosi per infiammare i veri credenti e, a sovrastare il tutto, l’ugola al vetriolo del sempiterno Chris, a prova di imitazione al pari di quella di un Hansi Kürsch e pochi altri.
Inutile dire che tutti gli elementi fin qui descritti trovano perfetta collocazione anche in “Fields of Blood”, un lavoro celebrativo che sembrerebbe candidarsi fin da subito al poco rispettoso titolo di “solito disco dei Grave Digger del nuovo millennio”, se non fosse che il nuovo millennio di cui si parla è ormai diventato più che maggiorenne e che, nonostante il loro manierismo esasperato, i becchini sono ancora qui. Dopo 40 anni. A dispensar legnate.
Un motivo ci sarà, no?

Per l’occasione, i nostri tornano tra le highlands della Scozia – terra che diede loro grandi soddisfazioni musicali – per continuare la storia iniziata nel 1996, e lo fanno col loro solito piglio autoritario: l’incipit di “Scotland the Brave”, lasciato aleggiare all’inizio di “The Clansmans Journey” per poi prendere una direzione del tutto diversa, sembra gridare ai quattro venti che i nostri non vogliono rifare “Tunes of War”, ma che comunque il terreno su cui ci si muove è quello lì (se poi aveste ancora dei dubbi, guardate alle spalle del braveheart col martellone che campeggia sulla destra della copertina…). Il sentore diventa più insistente con “All for the Kingdom”, che sembra ricalcare in qualche modo la celeberrima “Scotland United” grazie a un tiro adrenalinico e secco che esplode poi nel ruffianissimo ritornello. Un coro enfatico e cafone sovrasta “Lions of the Sea”, da cui è anche stato tratto un video. La traccia esplora il lato più anthemico del gruppo, con passaggi melodici e ritmati ben sorretti da una base agguerrita e un bel ritornello trionfalone, facile facile, già sulla rampa di lancio per furoreggiare durante le esibizioni dal vivo. Un arpeggio guardingo apre invece la successiva “Freedom”, che poi deflagra come la classica traccia rabbiosa ed affilata dei nostri, la cui arcigna coatteria affiora in più punti a screziare una struttura granitica penalizzata, però, da un ritornello non particolarmente riuscito. “The Heart of Scotland” parte ruffiana, con tamburi e cornamuse a profusione, ma sviluppa in seguito una certa asprezza avanzando lenta, marziale e sanguigna durante la strofa ma caricandosi di pathos durante il ritornello e l’assolo in odor di Gary Moore.
Si arriva ora a un pezzo particolare, in cui i nostri tornano a parlare della regina Maria Stuarda. La ballata “Thousand Tears” vede la partecipazione di Noora Louhimo dei Battle Beast a duettare con Chris. Ora, non me ne vogliano i fan più sfegatati del germanico quartetto, ma sono dell’idea che Boltendahl non sia mai stato un asso nell’uso della voce pulita: anche la tanto osannata “The Ballad of Mary” non mi ha mai fatto impazzire, quantomeno dal punto di vista vocale, per cui non ho potuto che vedere con occhio benevolo questa traccia, in cui la voce di Noora ci mette la proverbiale pezza in più di un’occasione donandole così un bel tono elegiaco e salvando, come si suol dire, la giornata. Il riff stoppato di “Union of the Crown” suona la sveglia, alzando i giri del motore con un bel pezzo teso e dotato della giusta dose di foga anthemica e battagliera, che si sublima in un gran bel ritornello. Si rimane nei territori della tamarraggine con “My Final Fight”, cavalcata agile ma non proprio riuscita per via di un’attitudine troppo caciarona, che spezza la tensione finora creata. Si ritorna in carreggiata con la ben più arcigna “Gathering of the Clans”, dal piglio nuovamente agguerrito ma che, nonostante un alto tasso di crudezza sonora e un incedere rissoso, scivola sul più bello perdendo l’occasione di piazzare il colpo del K.O.. Un incipit più rockeggiante apre “Barbarian”, traccia ritmatissima di reminiscenza Accept-iana che pur trasmettendo un certo fomento non riesce a spiccare il volo, se non durante la splendida fiammata eroica prima del finale.
Il rumore della pioggia e una cornamusa solitaria aprono la title track, poderosa suite di dieci minuti abbondanti che costituisce un capitolo a parte. Dopo il crescendo iniziale, “Fields of Blood” si distende come una bella marcia dal taglio epico, caratterizzata da toni arcigni durante la strofa e un ritornello carico di pathos. Molto bello l’intermezzo narrativo e sognante, racchiuso da un arpeggio ai limiti del bucolico, che occupa la parte centrale del brano, seguito da un breve ritorno alla grinta declamatoria e da un passaggio dimesso, penalizzato ancora una volta dalla voce pulita di Chris; per fortuna, la chiusura nuovamente agguerrita rimette le cose a posto, concludendo in positivo una traccia interessante e maestosa. Chiude l’album l’outro “Requiem for the Fallen”, racchiusa da un arpeggio inquieto che si carica, nel mezzo, di enfasi sinfonica dall’intenso profumo cinematografico.

Fields of Blood” è un bell’album di sano heavy metal della vecchia scuola e un ottimo modo per celebrare i quarant’anni del quartetto tedesco; nonostante la sua prevedibilità programmatica, infatti, l’ultimo nato in casa Grave Digger si fa apprezzare grazie a una resa energica che distrae in parte dal temuto effetto “minestra riscaldata” e che, seppur senza raggiungere i fasti del loro glorioso passato, si candida al titolo di miglior disco dei becchini da diversi anni a questa parte.

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