Recensione: Fire, Frost and Hell

Di Daniele D'Adamo - 18 Marzo 2022 - 0:00

Gli Hellfrost And Fire sono la nuova creatura di Dave Ingram, cantante inglese ormai assurto a leggenda per via di un lungo pedigree comprendente, fra gli altri, Benediction, Ursinne e Bolt Thrower.

Una classe che non si può discutere, la sua, che ovviamente ha tentato di infondere anche in quest’ultimo progetto, per il quale ha chiamato a sé Rick “Dennis” DeMusis (Gath) e Travis Ruvo (Cropsy Maniac).

Il genere non poteva che essere il death metal, tuttavia calibrato attorno alla galassia dell’old school. Un’operazione che pare sempre avere una fine ma che, al contrario, si nutre della linfa vitale sia dei musicisti più giovani, sia di quelli più anziani. Attitudine vera, atta a ricreare, nel 2022, la sulfurea atmosfera che si respirava verso la fine degli anni ottanta. Quando, cioè, il death evolveva dalle branchie più estremiste del thrash e del black.

“Fire, Frost and Hell”, osservato da questo punto di vista, appare irreprensibile. Anzi, l’abilità dei Nostri di utilizzare la macchina del tempo è sicuramente fuori discussione, tant’è che essa rimanda a oggi echi di mondi lontani; rielaborati e riprodotti per essere il linea con le produzioni moderne. Produzioni da intendersi come pulizia del suono, come riconoscibilità dei vari strumenti, in grado nondimeno di esprimere al massimo la potenza insita nelle corde del gruppo.

Inoltre, il grande retroterra culturale e l’esperienza del terzetto di nazione… internazionale, consente all’album di assurgere a un chiaro esempio di come debba essere interpretato al meglio il ridetto old school death metal. Soprattutto, almeno a parere di chi scrive, nella sezione ritmica, scevra da eccessi. Ruvo manovra le bacchette e i pedali concentrandosi su un mid-tempo segnato da una doppia cassa quasi perenne, riducendo al minimo la complessità di un drumming possente, massiccio, teso a far ballare le budella invece che a triturarle. DeMusis, nella sua veste di bassista, si limita a creare un sempiterno tuono che romba in sottofondo. Semplicità, sì, tuttavia indirizzata verso una filosofia che predilige la pesantezza e non la scioltezza, la rapidità. Lo stesso DeMusis approccia il riffing nel medesimo modus operandi: accordi granitici che, come deve essere, derivano direttamente dalla compressione del palm-muting d’estrazione thrash.

E Ingram? Niente da dire. La sua visione delle linee vocali è molto classica. Voce stentorea, emessa premendo a più non posso il diaframma, resa un po’ scabra da un growling assai soffuso, per niente profondo. Uno stile che non esprime molte novità ma che, almeno, risulta intelligibile nei vocaboli emessi. Stile peraltro ideale per il genere trattato.

Tutto bene, quindi? No.

Come purtroppo accade con cadenza sempre più ravvicinata, il punto debole delle operazioni di questo tipo ha un chiaro colpevole: la canzone. O, meglio, il songwriting. Che, nel caso in esame, non è in grado di creare brani che possano destare chi ascolta da una specie di torpore che altri non è che l’anticamera della noia. Anche a battere e ribattere sul platter non salta poi molto, da ricordare, da far eccitare le membrane timpaniche. Anzi, per dirla tutta, sembra quasi che non ci siano differenze sostanziali fra le varie tracce. Niente che spacchi la monotonia, niente che possa far venire la voglia di masticare a lungo il disco.

Per questo, “Fire, Frost and Hell”, nonostante il titolo evocativo, è un full-length che non lascia e che, soprattutto, non può lasciare memoria di sé. Benché, si ribadisce, il sound sia pressoché perfetto, la parte eminentemente artistica scivola nemmeno troppo lentamente verso una triste insufficienza.

Solo e soltanto per super appassionati / maniaci del death metal vecchia scuola.

Daniele “dani66” D’Adamo

 

 

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