Recensione: Fire upon Your Lands

A quattro anni di distanza da “No Sign of Life” tornano le leggende del death metal mondiale, gli Unleashed, con il quindicesimo full-length, “Fire upon Your Lands“. Un traguardo prestigioso che dimostra l’immensa passione per il genere suddetto da parte dei due mastermind che hanno creato la band: Johnny Hedlund (voce, basso) e Anders Schultz (batteria). I quali, assieme ai due chitarristi di lungo termine Tomas Måsgard e Fredrik Folkare, danno vita a una delle realtà più solide e coese del metal estremo.
Che, però, è bene sottolinearlo subito, non è più così estremo. Con questo disco, il combo svedese opera un cambio, più che di stile, di intensità sonora giungendo, per alcuni brani, a toccare con mano il thrash (“Unknown Flag“) ma di quello meno aggressivo (tipo Megadeth, per intendersi). Il depotenziamento del proprio sound è un fatto che coinvolge tantissimi act, una volta raggiunta la maturità tecnico/artistica e… fisica. Gli Unleashed non sfuggono a questa specie di regola non scritta, dando alle stampe un lavoro che dell’antico fervore ha più poco o nulla. Peraltro, grazie alle comodità della vita moderna, detto lavoro è stato concepito e costruito a distanza con scambi di e-mail e/o quant’altro di simile. Senza che, di conseguenza, si siano prodotti sudore, coesione, intesa e soprattutto si sia creato quel feeling che soltanto suonando fisicamente assieme può nascere e crescere per regalare, in sostanza, un’impronta unica a ciò che è ancora in fase embrionale.
Comunque sia, certamente non bisogna immaginare che Hedlund e soci si siano dati all’AOR: l’impatto sonoro complessivo del lavoro è più che discreto e soprattutto pulito, perfettamente discernibile in ogni sua componente. Senza che si sfascino le mandibole se non parzialmente in un unica occasione (“War Comes Again“), in cui, di nuovo, la ritmica delle sei corde segue fedelmente, e bene, i dettami di quella thrash. Il cambio di rotta verso lidi più accessibili, se apprezzabile da parte di coloro che del metallo della morte masticano solo qualche boccone qua e là, non può però che lasciare piuttosto insoddisfatti gli amanti del buon death metal. Ovviamente è impossibile accontentare tutti, ma è evidente che “Fire upon Your Lands” è frutto di una decisione presa a tavolino, poiché è davvero incomprensibile che una simile caduta di cattiveria sonora sia solo figlia… dell’età o dell’evoluzione musicale del compagine di Kungsängen.
Hedlund è sempre molto talentuoso a sorvolare sulle linee vocali con un leggero growling venato di harsh vocals. La classe non è acqua e lui lo dimostra. Ma lo dimostra anche il resto del collettivo, con i due axe-man fra i più bravi nonché affiatati in circolazione, che armeggiano senza pecche il proprio strumento regalando assoli di assoluto livello realizzativo. Schultz, fra tutti, è probabilmente colui che beneficia di più del cambio di rotta dei sui compagni, dovendo – a parte qualche raro secondo di blast-beats – occuparsi sostanzialmente di mid e up-tempo, ma senza stremarsi più di tanto. Scomparsi, a tal proposito, i famigerati tempi strascinati tipici dell’old school ma che comunque facevano parte del bagaglio stilistico del combo nordeuropeo.
Detto questo, la mutazione della foggia musicale, unica, degli Unleashed in un’altra meno specifica ed esplosiva anzi il contrario, ha portato, almeno a parere di chi scrive, a una prevedibilità anche del sistema-canzoni, diventato sì variegato ma senza che in esso vivano singoli episodi da imperitura memoria. La melodia c’è tutt’ora, seppure non troppo evidente, ma non basta ad alzare la qualità di una composizione che sembra, e si sottolinea sembra, dedicata al rispetto di qualche clausola contrattuale con la Napalm Records. A forza di ascoltare e riascoltare qualcosa esce fuori, come la stentorea ma assai armonica “Midjardarhaf“, hit dell’insieme che lascia intravedere una buona predisposizione del quartetto scandinavo smmai al melodic death metal, più che al thrash.
Un po’ poco, tirando le somme. La ridetta classe degli Unleashed non si tocca e su questo non ci sono dubbi. Essa, però, non li salva dall’aver concepito un’opera tutto sommato poco attraente, intrappolata fra thrash e death metal. Ove, a parte qualche song particolarmente riuscita, ci sono troppi singoli dall’aspetto anonimo e quindi scontato. Nondimeno, appare terminata l’era delle croci rovesciate e del ribollente paganesimo.
Per tutto questo la sufficienza è garantita, ma niente di più.
Daniele “dani66” D’Adamo