Recensione: Frost And Fire

Di IlBarbaroEpico - 31 Agosto 2002 - 0:00
Frost And Fire
Band: Cirith Ungol
Etichetta:
Genere: Heavy 
Anno: 1981
Nazione:
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78

L’esordio della band che ha praticamente creato l’epic metal dei vecchi eighties è un disco molto originale e tipicamente giovanile: intuizioni geniali non pienamente sfruttate si mescolano a reminiscenze seventies in un contesto di totale sincerità espressiva e imperizia fonica, creando il classico album da culto. Uscito nel 1981, “Frost and Fire” era sia una prosecuzione del discorso di bands come Black Sabbath o Ac/Dc che un tuffo nel futuro, attraverso giri di chitarre e basso del tutto inusuali, o anche rievocazioni psichedeliche che rimandavano persino agli anni ’60, riviste in un contesto di puro hard ‘n’ heavy.

 

La registrazione è ovviamente pessima, all’insegna del lo-fi sbandierato dal primissimo epic metal, ma le prestazioni musicali sono di altissimo livello: lo screaming di Tim Baker non è ancora sguaiato e dirompente come lo sarà in futuro, ma già la sua voce sporca e feroce è una pecora nera nel marasma di clean vocals dell’epoca. Le chitarre di Jerry Fogle e Greg Lindstrom non saranno certo pulite come violini, ma suonate in modo estremamente carnale e immediato, così come il flanged bass di Flint, un vero trademark della band, o il drumming monolitico e belligerante di Rob Garven. I riff di chitarra sono essenziali, così come essenziali sono le linee melodiche e le strutture delle song, non per questo prive di originalità (basterebbe citare “What Does it Take”). L’atmosfera del disco è ambivalente: se da una parte ci sono brani di hard rock melodico piuttosto spensierati, dall’altra compare qualche song davvero apocalittica che anticiperà la svolta epic/doom di “King of the Dead” (ad esempio “I’m Alive”) come qualche pezzo di epic puro e incontaminato (la titletrack). Insomma una compresenza di stili che inizia a definire il sound dei nostri.

 

Lo stile degli Ungol è ancora estremamente acerbo, e vive come già detto della scuola del passato. Ma i Cirith Ungol non si ispirano più solo e soltanto ai Judas Priest, come facevano i maestri della nwobhm: no, qui la principale pietra di paragone sembrano proprio i Black Sabbath, con il loro hard rock dirompente, a tratti grezzo e assolutamente immediato ed impressionista. I Cirith Ungol non rifiniscono il loro lavoro musicale con barocchismi di qualsivoglia tipo, loro sono completamente immediati e diretti, la loro arte è lontanissima da qualsiasi compromesso, già in questo disco comunque piuttosto in linea con i tempi e non ancora sperimentale e doom come lo sarà “King of the Dead” tra qualche anno. Mentre i puliti gruppi della nwobhm affogano il loro metal in un mare di note con stili fin troppo puliti e raffinati come il class di Dokken & co., che esulavano dal contesto dell’heavy, i Cirith portavano una scarica di pure emozioni non mediate assolutamente devastanti.

 

In sintesi, il disco è fondamentale per conoscere i Cirith Ungol e la nascita dell’epic metal, anche se non ha ancora tutti i clichè della band manifesta un gruppo in vulcanica evoluzione, che traeva il meglio del passato e lo proiettava nel futuro sotto forma di grandi canzoni. Senza dubbio è un disco altalenante e risente di tutti i problemi di un gruppo agli esordi, ma merita certo un ascolto.

 

TRACKLIST:

 

1. Frost and Fire
Un classico. Il mitico giro di chitarra che la introduce è praticamente già storia, così come l’inarrestabile cavalcata su cui è costruito questo pezzo, dinamico, grintoso ed epico, probabilmente la prima vera epic-metal-song della storia! Incredibile prestazione di Tim Baker nel ritornello “…of Frost and Fire… it burns insiiide of meee!!!!”. Indispensabile.

 

2. I’m Alive
Altro highlight: pezzo estremamente atipico, che alterna un cupo e funebre arpeggio con un cantato piuttosto inquietante e oscuro ad un ritornello potente e vitale, riassumendo un po’ le particolari tematiche della song. Uno dei migliori brani dell’album, e forse quello più in stile Ungol.

 

3. A Little Fire
Momento di puro hard rock americano con una vena di psichedelia, certo molto grezzo e potente, ma decisamente catchy e melodico, anche se sicuramente non proprio espirato.

 

4. What Does it Take
Un alienante giro di synth guida questa canzone che potremmo quasi define dark/psych, ipnotica e assolutamente oscura, con chitarre pesanti e un cantato quasi sussurrato. Assolutamente particolare.

 

5. Edge of a Knife
Torna l’hard rock alla buona dei vecchi seventies, con la solita potenza dei Black Sabbath accoppiata a un’attitudine più menefreghista à la Ac/Dc. Anche qui si nota tutta l’ingenuità giovanile della band.

 

6. Better Off Dead
Vedi sopra, solo che questo brano ha qualcosa di fortemente psichedelico e ipnotico, il basso di Flint che guida le strofe è molto particolare e dissonante, mentre il ritornello è di quelli classici che entrano in testa al primo ascolto.

 

7. Maybe that’s Why
Insieme all’opener, il sommo capolavoro del disco. Una sinfonia di chitarre, uno splendido tappeto acustico su cui si dipanano gli intensi virtuosismi di Greg Lindstrom e del compianto Jerry Fogle, una canzone semplicemente struggente che annovera qualche momento di puro sentimento, potrebbe essere paragonata senza troppe remore a “Voice of the Soul” dei ben più celebri Death per intensità e forza espressiva. Da notare le lyric non cantate, inusualmente positive e rassicuranti, che danno al tutto un’aria di magia e mistero, che chiude degnamente il disco.

 

8. Cirith Ungol (bonus track della ristampa)
Megaclassico della band registrato dal vivo, possiamo godere, oltre all’incedere terrificante e inarrestabile di una song monolitica e spietata, dei virtuosismi di Jerry Fogle e di un potentissimo drum solo di Rob Garven in chiusura.

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