Recensione: Ghost

Di Matteo Bevilacqua - 22 Marzo 2021 - 10:08
Ghost
70

Provenienti da diverse regioni della costa occidentale degli Stati Uniti, i Fervence sono davvero una piacevole sorpresa e con Ghost confezionano un debut album ricco di complessità, aspra bellezza e ritmi in continua evoluzione. Attivi dal 2017, i Fervence non sono esattamente nuovi sulla scena in quanto i componenti hanno militato in svariati progetti precedenti come Walk Away Alpha, Machines of Man e Cyborg Octopus.

Commentando l’album, la band condivide questa considerazione: «Ghost è un dialogo interiore in cui vogliamo approfondire il pensiero relativo a ciò che sta oltre ogni limite, l’idea di nuova vita e la tragica contemplazione di tutto ciò che sta nel mezzo. L’album approfondisce anche la dualità del valore personale, delle relazioni, della tossicità e di come ci si sente ad essere umani».

Definitisi una band alternative-metal, i nostri non nascondono l’evidente influenza di realtà come i Tesseract, un credito che si percepisce fin dai primi secondi di questo Ghost che andiamo ora ad esaminare.

Un’apertura lenta con chitarre eleganti, pesantemente effettate e una voce delicata e sognante ci introducono a “Beneath the sleeping earth” prima di immergerci in una pletora di chitarre e caos.
L’attacco viene sferrato in tutta la sua potenza con una bella accoppiata di ritmiche serrate e precise, contestualmente con un’abbondanza di riverberi ed effettistica. Su tutto il brano spicca la voce di Austin Bentley che si libra in acuti precisi, dolci e potenti allo stesso tempo, trasmettendo bellezza e angoscia con facilità. Nulla di nuovo, si tratta del tipico approccio moderno dei cantanti alt-metal il cui risultato è dannatamente perfetto, forse troppo. La produzione è cristallina e permeata da numerosi strati aggiunti con lo scopo di creare un effetto di potenza e purezza. Dulcis in fundo, Bentley svela il doppio talento con screaming vocals che stupiscono piacevolmente creando un bell’effetto di contrasto. Un outro dai connotati soft concede lo spazio mentale per riflettere su quanto appena ascoltato. Questo opener è stato energico, delicato e trascinante.

La successiva “Corrosion” inizia con un riff all’unisono di chitarra e basso di una profondità inquietante che tiene impegnato l’ascoltatore dall’inizio alla fine. Rispetto all’opener i riff e il sound in generale mostrano dei tratti più contemporanei di casa Periphery (forse con un tocco di genialità in meno). Bentley ora trattiene la voce e usa questa moderazione per fornire un effetto più malinconico ma il risultato non è convincente: la voce che prima era la vetta adesso non fornisce alcun tipo di evoluzione rispetto all’opener, peccato. Nonostante la componente strumentale nel sottofondo sia eccezionale, le dinamiche sempre al massimo saturano immediatamente l’ascolto. Il songwriting non offre grandi momenti e stanca in fretta. Da evidenziare la performance alla batteria di Josh Mathis in grado di creare un’emozione morbida ma trascinante che emerge in questa traccia ed in generale nell’album. I suoi riempimenti sono creativi e precisi, si svolgono in modo imprevedibile e aggiungono momenti di qualità in ogni traccia. Il registro cambia totalmente con la breve “The Silent Wall” che presenta poche e ben studiate note di pianoforte dal suono ovattato che si intrecciano melodicamente con la voce. Il crollo della dinamica ci regala un bel momento di riflessione, delicato ed introspettivo. Unica pecca l’evidente autotune sulla voce.

Si riparte a pieno ritmo e senza compromessi con “Surrogate”. Molto originali i pattern di chitarra pulita sulla strofa che si incattiviscono concedendo gradualmente maggior spazio alle chitarre distorte. Le ritmiche sono coinvolgenti e trasmettono una sensazione di fuga. Ed ecco puntualmente il nostro Bentley che, accompagnato da ottimi backing vocals, spicca verso vette inesplorate. La qualità è altissima nonostante nuovamente il songwriting sia sacrificato in funzione del puro aspetto sonoro ma pazienza: il brano è un trionfo e il tutto si conclude perfettamente con uno strato di archi e noise di sottofondo. Il riff che si sente arrivare in lontananza è fragoroso ed energico e lascia ben presagire. Ecco “Paxism”, brano in assoluto più cattivo dell’album in cui il nostro Bentley esordisce con uno screaming vocal aspro e tagliente. La scelta degli accordi spiazza piacevolmente con un bel cambio inaspettato quando si passa alla voce melodica. Questo pezzo è un killer e dimostra le vere potenzialità della band. A livello sonoro troviamo nuovamente tante chitarre pulite effettate, un sound ampio ed in generale una produzione da fuoriclasse.

La title track presenta un sapore alt-rock dai toni cupi ma allo stesso tempo è convenzionale e ruffiano (l’arpeggio ricorda addirittura i POD). La voce nella strofa appare banale e scontata, nonostante gli ottimi cori fluttuanti lasciati indietro nel mix che conferiscono un tono solenne al prodotto finale. Ci si riprende nel ritornello dove l’apertura pop convince maggiormente. Rispetto al resto dell’album qui il sound non funziona in quanto una composizione come “Ghost” sarebbe stata più efficace se fosse stata ridotta all’essenziale: il troppo riverbero disperde l’attenzione e il pezzo annoia subito. Fortunatamente gli acuti sul finale sono meravigliosi e salvano al pelo un brano che nonostante il recupero risulta trascurabile e dimenticabile. Una nota a parte per l’ottimo lavoro di Jon Daniels al basso che aggiunge un tocco di raffinatezza alla traccia.

Concludiamo con “The Endless Black I Find” che esordisce con un riff di chitarra gigantesco che mostra un controllo dello strumento impressionante da parte di Trent Odneal. Purtroppo l’entusiasmo viene nuovamente troncato da una linea vocale scontata. Niente da fare, nonostante il vocalist eccezionale, le scelte delle linee vocali sono la vera pecca del disco. Lo screaming vocal conferisce un po’ di varietà ad un brano che purtroppo ha già giocato tutte le sue carte. Come ormai da standard, troviamo il consueto finale di pianoforte (questa volta arricchito da una bella linea di violoncello) che lascia un po’ l’amaro in bocca per le aspettative deluse.

Volendo fare il punto, sebbene ogni traccia presa da sola sia un evento ipnotizzante e ritmicamente pulsante, non troviamo molta varietà con lo scorrere dell’album. Come per molte altre band del genere si è prediletto puntare il focus concettuale sull’aspetto sonoro della musica piuttosto che sul songwriting. La ricerca di melodie che possano ancorarsi saldamente nella nostra testa viene messa da parte a favore di combinazioni vocali e strumentali che seppur belle, complesse e intriganti alla lunga lasciano il tempo che trovano. Il risultato è tangibile e ciascun brano pare uguale a quello precedente. Inoltre il costante e pesante riverbero, nonostante sia atmosferico, disperde la precisione delle ritmiche generate dai complessi riff in palm muting, con il risultato di creare un’unica bella esperienza, un vivido paesaggio sonoro, ma senza particolari diversità a livello di dinamiche.

Ciò detto, Ghost è sicuramente un disco da ascoltare e riascoltare, in modo da poterne interiorizzare gli strati e la complessità, e i Fervence sono una band che merita a tutti gli effetti di spiccare il volo ed essere conosciuta. L’augurio è che ci sia ampio spazio di miglioramento perché le basi per scrivere il prossimo capolavoro alternative-metal ci sono tutte.

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Band: Fervence
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70