Recensione: Ghost In The Mirror

Di Alberto Vedovato - 23 Ottobre 2008 - 0:00
Ghost In The Mirror
Band: Shadowman
Etichetta:
Genere:
Anno: 2008
Nazione:
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79

Appassionati del rock più melodico al rapporto: sua maestà Steve Overland è tornato!
Dopo esser stato portato nell’olimpo delle voci ottantiane con gli FM, dopo aver dato vita alla sua seconda creatura i The Ladder, eccolo al terzo capitolo della sua nuova trasformazione: gli Shadowman.

”Ghost in the Mirror”, a due anni di distanza, si presenta con le stesse ottime credenziali degli altri due suoi predecessori (“Land of the Living” del 2004 e “Different Angles” del 2006) ovvero una band con componenti di lusso (due membri dei Thunder e un tale Steve Morris giusto per far capire) e ovviamente il nome stesso del singer, che se non si può chiamare garanzia per lo meno ci si avvicina molto.
Siamo sempre quindi nell’ambito di quel rock patinato e melodico di cui da sempre Overland è portabandiera, ma con delle decisive crescite rispetto ai lavori precedenti.
L’album infatti non risparmia riff in palm muting e passaggi più pesanti, sempre senza dimenticare l’elemento melodico che è carattere costante e imprescindibile, oltre alla classica timbrica di overdrive misto a delay e chorus, vero e proprio marchio di fabbrica del genere.
L’aver cercato questi sprazzi più vicini al class metal di matrice Dokkeniana rende il lavoro sicuramente più vario e più apprezzabile anche da chi alla parola AOR solitamente storce il naso. Merito questo che va dato non solo al singer britannico, ma anche e soprattutto a una sezione strumentale davvero eccellente che, incoraggiata da una produzione in simbiosi con lo stile di ogni componente e dai suoni decisamente più marcati e corposi rispetto al passato, si lascia andare a vere e proprie performance mai uguali una all’altra. La produzione non a caso è stata ancora affidata proprio al chitarrista Steve Morris, che forse questa volta ha voluto abbandonare i suoni cromati e dare una spinta in più al suono della sua chitarra, rendendo di conseguenza più netto e convincente il lavoro della sezione ritmica amalgamando l’ensemble, per un risultato che valorizza ogni nota suonata.
Si passa allora dal riff heavy dell’opener “Road to Nowhere” su cui si adagiano delle linee vocali in pieno stile ottantiano, all’onnipresente lavoro di tastiere del neo assunto Steve Millington della seconda track, anche qui sostenuta da un riff che non ha nulla da invidiare ai capolavori della decade natia.
Tastiere a dir la verità essenziali per tutta la durata del platter, con nostalgiche rispolverate a quell’ormai dimenticato Hammond tipico dell’hard rock settantiano. Si può dire che questo elemento aggiunto dà sicuramente più corpo all’insieme strumentale.

Ecco quindi che se in ”Different Angles” e ”Land of the Living” i brani potevano risultare prolissi, privi di quella carica che rende il buon vecchio AOR un genere sempre allegro e delicato e forse più accostabili ai sound di Giuffria e House of Lords, qui si fa il salto di qualità. Le canzoni sono energiche quanto basta per catturare l’attenzione dall’inizio alla fine dei cinquantesette minuti di durata, intervallando i già citati riff chiaramente ispirati dal class metal a cori melodici e accattivanti, passando per la semiballad “I’ve Been Wrong Before” introdotta da uno struggente tema di chitarra e impreziosita da una prova vocale che conferma quanto Overland sia sempre in gran forma.

La classe non è acqua, e se già questa all-star band aveva dimostrato a tutti di saperci fare, con questo disco lo ribadisce. Anzi, quasi vien da pensare che finora avessero solo scherzato.
Canzoni come la già citata opener, “Colour of Your Love” che si infila in testa col suo refrain, l’ipnotica “It’s Electric”, il cui riff pesante ben si contrappone al cantato easy e scanzonato della strofa e la conclusiva rock ‘n’ roll song, “Little Miss Midnight” (a parer mio la migliore del disco) fanno ripiombare direttamente nell’epoca del capello cotonato.

Dopo le uscite dei grandi che quest’anno hanno riempito la scena (Dokken, Whitesnake e Uriah Heep su tutti) questo è un ennesimo piacevolissimo salto indietro nel tempo, che fa riassaporare il clima da arena che ormai da vent’anni ha smesso di essere uno dei punti di riferimento del Rock. Nulla di nuovo sotto il sole dunque, ma quest’album ha il pregio di essere vario e originale, riuscendo allo stesso tempo ad aderire completamente agli stilemi del genere.

Se i dischi precedenti convincevano si, ma con qualche perplessità, forse questo allora è proprio l’album che fin dall’inizio ci si aspettava dal super-combo britannico, senza cali o filler di sorta, con la giusta miscela di energia e melodia e quella classe che finalmente non rimane solo sulla carta, ma riesce ad emergere attraverso ognuno dei dodici brani presenti.

Obbligatorio l’acquisto per i fan storici di FM e Thunder; vivamente consigliato a chi si rispecchia in un sound che è unione di melodie patinate, dinamicità e potenza in una miscela davvero ben riuscita.

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Tracklist:

01. Road to Nowhere – 04.28
02. No Man’s Land – 03.53
03. Bad For You – 04.56
04. Colour Of Your Love – 04.15
05. Fire And Ice – 04.57
06. Here I Am Now – 05.34
07. I’ve Been Wrong Before – 06.08
08. It’s Electric – 03.44
09. Keeper Of My Heart – 04.47
10. Out Laws – 04.58
11. Hard Ways – 04.55
12. Little Miss Midnight – 04.12

Line Up:

Steve Overland (FM) – Lead Vocals
Steve Morris (Heartland) – Guitars / Keyboards
Chris Childs (Thunder) – Bass
Harry James (Thunder) – Drums
Steve Millington: (Sad Cafe / 10 cc / Wax) – Keyboards

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