Recensione: Gods of Debauchery

Di Luca Montini - 9 Ottobre 2021 - 13:38
Gods of Debauchery
Band: Seven Spires
Etichetta: Frontiers Music
Genere: Power 
Anno: 2021
Nazione:
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78

Giunti al terzo album in carriera, gli statunitensi Seven Spires proseguono nella loro inarrestabile marcia alla conquista del panorama musicale internazionale. Pubblicato dall’italiana Frontiers Music, “Gods of Debauchery” è il risultato del lavoro del quartetto formatasi a Boston e capitanato dalla carismatica Adrienne Cowan, scritto durante i duri mesi di pandemia che non hanno permesso al gruppo di promuovere a dovere sui palchi il secondogenito “Emerald Seas” (2020). Gli dèi della dissolutezza propongono un genere estremamente fresco e giovane, considerato anche che i ragazzi sono tutti nati nella seconda metà degli anni ’90, riuscendo nella non facile impresa di ibridare più generi in un turbinio di citazioni più o meno volute ai maestri che li hanno influenzati, oltre che a sé stessi, in un concept album che chiude la trilogia sviluppata assieme ai due dischi precedenti. Si tratta di una versatilità che è cifra caratteristica dei Seven Spires, tecnicamente preparatissimi, accentuata dal talento vocale della Cowan, diplomata in canto al prestigioso Berklee College, capace di alternare parti melodiche ammalianti a sezioni in growl oscure e graffianti.

Si susseguono così momenti più tirati con la doppia cassa e tastieroni imperiosi tipici del black metal con elementi orchestrali alla Dimmu Borgir, in brani come i due starter, la mortifera titletrack “Gods of Debauchery” e la successiva “The Cursed Muse” (che però si concede momenti più ariosi di clean vocals), o la sinfonica “Dreamchaser” in fondo al disco. Nella parte centrale sono presenti alcuni brani che ho apprezzato particolarmente, come “Ghost of Yesterday”, che rallenta un po’ il tempo con soluzioni orientaleggianti, accelerando nel bridge che conduce ad un ritornello pulito molto ben interpretato e forte di buoni arrangiamenti.
Molto interessante e decisamente al limite tra metal e qualcosa di completamente diverso, la pop “Lightbringer”, a metà tra hard rock e Britney Spears, in un duetto con Casey Lee Williams, che sicuramente non sarà gradita dai puristi (e nel video c’è pure la coreografia di danza), ma che conferisce al disco un ulteriore livello di accessibilità con straniamento per il continuo cambio di genere. Per me stra-promossa.
Sempre in tema di ospiti illustri, il brano più ascoltato ed apprezzato del disco (Spotify alla mano, almeno) è “This God is Dead”, alla posizione numero dieci: una lunga suite orchestrale in cui fa la sua comparsa Roy Khan, storica voce dei Kamelot dei tempi d’oro, in cui i nostri col favore del minutaggio riescono a farci assaporare ogni sfumatura della propria, deliziosa offerta musicale.
Il disco propone anche un paio di buone ballad in cui Adrienne riesce ad esprimere il suo lato più melodico, come nella struggente “In Sickness, In Health” o in “The Unforgotten Name”, in cui la singer è supportata dalla voce maschile di Jon Pyres (Threads of Fate), che può vantare anche di un notevole solo in shredding di Jack Costo. Belli anche i brani power più tradizionali, come la stratovariusiana “Oceans of Time”, che esplode con un ritornello positivo e zuccheroso che spezza il mood crepuscolare di buona parte del disco.
Spettacolare anche la conclusione, che arriva forse un po’ tardi per un album abbastanza prolisso: il brano finale “Fall with me” è una ballatona in 3/4 tra metal, pop e musical che può ricordare gli Avantasia come Meat Loaf, con vocalizzi veramente coinvolgenti della capitana della band, sempre capace di emozionare interpretando con personalità tutte le linee vocali.

Gods of Debauchery” è un lavoro veramente notevole, ad opera di una tra le giovani band americane più ispirate e poliedriche degli ultimi anni in ambito power-symphonic, trainata dalla voce cangiante e sempre più matura di Adrienne Cowan. Peccato per l’eccessiva lunghezza, che ne pregiudica in parte l’immediatezza: per una band emergente pubblicare un disco di quindici brani (più intro) di quasi un’ora e venti minuti potrebbe non costituire il miglior biglietto da visita per ampliare la propria fanbase. Non abbiate paura e non fermatevi ai singoli: in “Gods of Debauchery” c’è molto, molto di più!

Luca “Montsteen” Montini

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