Recensione: Green Valley

Di Matteo Pedretti - 16 Maggio 2021 - 21:00
Green Valley
Band: Candlemass
Etichetta: Peaceville Records
Genere: Doom 
Anno: 2021
Nazione:
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70

I Candlemass, con oltre 35 anni di carriera alle spalle, sono stati tra i primi, immediatamente dopo Saint Vitus e Trouble, a raccogliere l’eredità di Black Sabbath, Pentagram, Pagan Altar e Angel Witch, contribuendo in modo significativo alla definizione dei canoni del Doom Metal degli anni ‘80. Diversamente dalle formazioni d’oltreoceano, gli svedesi accostano la componente più plumbea del proprio sound a una matrice Epic Metal, non senza riferimenti alla NWOBHM. Il titolo del loro debutto del 1986, “Epicus Doomicus Metallicus”, suona come una dichiarazione d’intenti a cui il combo terrà fede nei lavori successivi, i primi tre dei quali hanno lasciato un marchio indelebile non solo nel Doom, ma più in generale nell’intero panorama Metal.

“Green Valley” è la registrazione di un live streaming tenutosi il 3 luglio 2020 pubblicata da Peaceville Records lo scorso 7 maggio nelle versioni doppio vinile nero apribile, CD+DVD (entrambe con note di copertina del mastermind Leif Edling) e in digitale. La scaletta e la qualità tecnica sono del tutto in linea con quelli di uno degli ultimi loro veri show, quello del 18 gennaio 2020 allo Slaughter Club di Paderno Dugnano (MI). La setlist di quella notte fu un vero e proprio greatest hits, composta com’era da brani del periodo 1986-1989, con l’unica eccezione di “Astorolus” dal recente “The Door to Doom”.

Per niente scontata in quell’occasione la presenza sul palco del bassista, fondatore e principale compositore Lief Edling, spesso assente dalle performance dal vivo per via di problemi di salute. Ma quella sera, anche grazie al supporto di un pubblico che cantava a squarciagola gli inni Doom della band, Leif e compagni apparivano in grande spolvero. Rimarcabile anche la prestazione vocale di Johan Längquist che, dopo aver preso parte in qualità di session vocalist alle registrazioni di “Epicus Doomicus Metallicus”, lasciò il microfono al carismatico Messiah Marcolin (e a molti altri dopo di lui) per rientrare in formazione solo nel 2018.

Il riferimento a questa data italiana di inizio 2020 è funzionale ad evidenziare come, nell’economia complessiva di questo live album, l’assenza di un pubblico in carne e ossa in grado di scaldare i musicisti, alle prese con la loro prima esperienza in streaming, pesi in modo rilevante. Detto questo, sarebbe scorretto non soffermarsi sulla professionalità, la passione e l’attitudine generosamente profuse dagli svedesi anche in questa occasione, che rendono la registrazione un prodotto apprezzabile, a dispetto dei suoi limiti. Nel lasso temporale di circa un’ora la band passa in rassegna gran parte dei suoi classici, saccheggiando – in particolare – i primi due tasselli della propria discografia. La partenza d’impatto è affidata alla rocciosa “The Well of Souls” dal secondo full lenght “Nightfall” del 1987, da cui sono tratte anche la più veloce “Dark Are the Veils of Death” e “Bewitched”. Da “Ancient Dreams”, il terzo album del 1988, è estratta “Mirror Mirror” (in coda alla quale è eseguita una breve citazione della title track), che in questa versione acquista la dovuta ruvidità di cui difettava l’originale a causa di una produzione non pienamente riuscita.

Tra rapide incursioni in “Tales of Creation” del 1989 (con “Dark Reflections”) e nel recente “The Door to Doom” si arriva al gran finale, appannaggio di “Epicus Doomicus Metallicus” con la tripletta “Under the Oak”, “A Sorcer’s Pledge” che, con il suo coro fatto apposta per essere cantato all’unisono con il pubblico risente pesantemente di questa strana circostanza, e la conclusiva “Solitude”. Nella versione CD c’è spazio per “Demon’s Gate”, provata nel soundcheck.

Inevitabile constatare come la scaletta sia molto simile a quella di “Candlemass – Live”, il primo album dal vivo del 1990, a riprova del fatto che, per quanto gli svedesi possano andare fieri di quasi tutto quanto hanno pubblicato nel tempo, sono stati i primi 4 album a scrivere la storia. Il motivo che rende davvero interessante “Green Valley” è il fatto che rappresenta l’unica testimonianza di un Johan Längquist che si cimenta con successo, nonostante i registri vocali asciutti e taglienti, sul materiale originariamente registrato da Messiah Marcolin, le cui interpretazioni erano invece all’insegna di un approccio pomposo, operistico e teatrale.

Forse non è del tutto casuale che due tra i gruppi che possono essere annoverati tra i pionieri del Doom e tutt’oggi tra i suoi interpreti più autorevoli, i Candlemass e i Saint Vitus, abbiano dovuto affrontare tante traversie con i cantanti, che ne hanno inevitabilmente condizionato le carriere. Probabilmente questa instabilità è in qualche modo legata a quel fato avverso e incombente che sembra inesorabilmente legato al genere. Rassicurante, quindi, prendere atto di come entrambe le formazioni stiano ora attraversando una fase di ottima forma anche, forse soprattutto, grazie al ritorno dei loro vocalist originari.

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