Recensione: Hallow The Dead

Di Vittorio Sabelli - 30 Settembre 2014 - 16:08
Hallow The Dead
Etichetta:
Genere: Death 
Anno: 2014
Nazione:
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54

E alla fin fine giunse il primo lavoro sulla ‘lunga distanza’ dei bavaresi Deathronation, a dieci anni dalla nascita, durante i quali la band non si è dimostrata affatto produttiva, lasciando per strada solo un paio di demo risalenti al 2006 (“A Soil Forsaken”) e al 2011 (“Exorchrism”), oltre che una Compilation del 2012 e uno split con gli Obscure Infinity dello scorso anno.

Imbattendoci in “Hallow The Dead” ci aspettiamo perlomeno un album degno del tempo atteso, ed eccoci invece di fronte all’ennesima ottima band che purtroppo in fase compositiva è equiparabile alla miriade di band che nascono giornalmente e propongono un death metal si sincero, ma del quale l’ambiente (e le orecchie degli appassionati) sono collassati da decenni. Alcune idee sono buone e come da tradizione non mancano cambi di tempo e rallentamenti, ma nessuna idea sembra esser originale da far sobbalzare per un istante dalla sedia. Tutto schematico, tutto ‘dritto’, tutto già ascoltato, trito e ritrito.

Anche se i sette minuti dell’opener “Deathchant Assyria” avevano riposte buone speranze per il seguito considerando la buona produzione e qualche interessante cambio di tempo, nonostante i riff siano di quelli ‘da lick ‘normali’. Andando avanti con l’ascolto “Spiritual Relief” si mostra varia al punto di imbatterci in una voce femminile su una sezione slow, che viene presto ripresa dal vocione di Stiff Old, che, non me ne voglia, è l’incarnazione teutonica del Lemay di ‘Erosion Of Sanity’.

E sinceramente due decadi dopo non entusiasma ascoltare una sorta di ‘doppione’ della mente dei Gorguts. La metrica e il modo di cantare è palese in “Ghostwipper”, che inizia un buon medium per poi decollare e finire in una sezione slow, con le chitarre che svolgono il loro sufficiente compito, mentre “Beg For Your God” si dimena tra death e thrash ma il main riff è quanto di più scontato si possa trovare in circolazione, e anche la sezione ritmica, nonostante sia buona a cambiare spesso marcia, risulta povera di idee nei fill, e anche “Church Of Salvation” denota carenza di idee nuove dal punto di vista musicale, mentre la parte vocale tiene viva la fiamma perlomeno per il rapporto con Lemay. E così si va verso il trittico finale, compost da “Steelpanther’s Fist”, “Realm Of Shadows” e “Age Of Whoros”, che nulla aggiunge o toglie a quanto già sentito, se non per un pianoforte a fine album. 

Che dire, la band suona bene e si sente che è rodata e collaudata, ma i brani diventano noiosi e scontati dopo pochi ascolti, caratteristica (purtroppo) in comune con la stragrande maggioranza delle band attuali.

Vittorio Sabelli

 

 

 

 

 

 

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