Recensione: Hardwired… To Self-Destruct

Di Vittorio Cafiero - 29 Novembre 2016 - 14:30
Hardwired… To Self-Destruct
Band: Metallica
Etichetta:
Genere: Thrash 
Anno: 2016
Nazione:
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65

Dopo oltre otto anni dall’uscita di “Death Magnetic” i Metallica hanno finalmente dato alle stampe il loro nuovo lavoro: il doppio album “Hardwired… to Self-Destruct”, uscito il 18/11/2016.
Il combo va così ad aggiungersi alle altre band storiche, quali Testament, Flotsam and Jetsam, Megadeth, Anthrax e Death Angel, solo per citarne alcune, che quest’anno hanno pubblicato i loro lavori dimostrando che c’è ancora tanto da dire in ambito Thrash Metal, nonostante siano passati oltre trenta’anni da quando, loro stesse, avevano contribuito a farlo esplodere.
Al contrario dei molti colleghi che hanno tenuto fede al termine “battere e percuotere”, mantenendo un songwriting diretto e senza troppi fronzoli, i Metallica hanno invece sfornato un album dai caratteri controversi, che di Thrash Metal ha solo qualche lampo, confermando di volersi allontanare dai sentieri della musica estrema.
Pur essendo i tempi di “Load” e successivi praticamente un ricordo, con le dichiarazioni dell’epoca sostanzialmente ritrattate, e l’esperimento “Lulu” concluso, l’aggressività, la rabbia e, soprattutto, la spontaneità, che hanno portato il quartetto californiano ad essere headliner tra i quattro elementi eletti tra i più rappresentativi nella storia del Thrash Metal, sono state quasi del tutto sostituite da un songwriting molto ragionato e poco istintivo, quasi fosse volto a non scontentare nessuno.
Su un totale di dodici tracce troviamo divisi, pressoché in parti uguali, brani veloci, che richiamano gli esordi, brani basati su tempi propri dell’Heavy Metal più classico, verso il quale i Metallica hanno sempre dimostrato rispetto esaltando le influenze da questo esercitate, ed altri ancora dalle tessiture più moderne e moderate.
Mentre i pezzi della prima e seconda specie risvegliano un certo interesse portando ad un giudizio positivo, quelli appartenenti alla terza categoria risultano mancanti di quell’energia primitiva che richiede il genere, ben messa in evidenza dalla voce carica di rabbia di James Hetfield, dalla ritmica granitica e dagli assoli di Kirk Hammett nel primo periodo storico della band cha va dal 1982 al 1991, anno di pubblicazione del full-length “Metallica”, conosciuto come il “Black Album”.
Ed è così che a brani più che validi, come le dinamiche “Hardwired” e “Moth into Flame”, l’energica “Atlas, Rise!”, la cupa “Halo on Fire” e la veloce “Spit Out the Bone”, che da tradizione chiude l’album, si affiancano tracce a mio giudizio senza mordente e che, pur se suonate in modo impeccabile, non riescono a penetrare nelle ossa e ad arrivare al cuore; tra queste l’angosciosa “Dream No More”, la troppo lunga “Here Comes Revenge” e la ripetitiva “Am I Savage?”.
I tre pezzi veloci presenti su “Hardwired… to Self-Destruct” non ne fanno un album Thrash Metal, ma è riduttivo mantenere tale aggettivo per i Metallica, avendo essi stessi dimostrato di non volere, pur se stati maestri ed innovatori del genere, rimanere confinati tra le sue pareti.
Non sappiamo cosa i “quattro cavalieri” ci riserveranno per il futuro; per ora archiviamo “Hardwired… to Self-Destruct” ritenendolo appena sufficiente.

Voto 65

Andrea Bacigalupo

 

 

Che band unica sono i Metallica. Se ne potrebbe parlare per anni e anni. Non c’è un capitolo della loro discografia che non abbia tratti e risvolti su cui si potrebbe discutere per ore: aneddoti e leggende degne della miglior saga fantasy, qualità ed idee che hanno cambiato la storia della musica metal degli ultimi trenta anni. Eppure, sebbene nel tempo la qualità compositiva dei quattro sia scemata di molto, ogni disco in uscita rappresenta un momento atteso. Chi lo aspetta per metterlo in croce, chi per affermare, ancora una volta, che nemmeno la mediocrità compositiva può offuscare l’aurea artistica che abbraccia il mondo metallico del combo di San Francisco. Ma se una band di questo calibro, nel 2016, riesce a creare ancora tutta questa aspettativa, un motivo di sicuro c’è. Ecco quindi a voi: “Hardwired…To Self-Destruct”.

La prima cosa che ‘salta all’orecchio’ ascoltando questo nuovo e decimo disco della carriera (“Garage Inc.” escluso) è una notevole freschezza compositiva dopo alcuni capitoli del recente passato apparsi ben poco ispirati (“St. Anger”, “Death Magnetic”, “Lulu”). Un altro aspetto rilevante è una cura maggiore per le melodie che nel tempo s’era un po’ persa ed un approccio ritmico parecchio arcigno, a tratti sfociante nell’hardcore, ma sempre ben piantato a terra da un groove convincente. Un Hetfield in straordinaria forma risulta poi il collante al tutto.  Queste chiavi di lettura a nostro parere rappresentano i tratti peculiari di questa nuova uscita.
 
I brani che ci hanno convinto maggiormente sono quelli che suonano pių catchy, ‘Murder One’ su tutti. In particolare il pezzo č un ricercato omaggio a Lemmy, compianta anima dei leggendari Motörhead, da sempre fonte di infinita ispirazione per il gruppo. Questa ispirazione filo NWOBHM la ritroviamo un po’ in ‘Atlas, Rise!’, pezzo davvero valido e caratterizzato da una matrice heavy metal marcatissima. Il fatto che la band abbia poi voluto riferirsi ai tempi di “Metallica” (alias “Black Album”) lo si percepisce da quanto contenuto in pezzi come ‘Halo On Fire’‘Now That We’re Dead’ ed ‘Here Comes Revenge’. Qui i quattro regalano ancora melodia e groove, elementi, lo ripetiamo, portanti di queste strutture musicali che garantiranno con molta probabilità una tenuta anche in sede live per musicisti non pių tanto giovani come il batterista Lars Ulrich… Tra i brani davvero validi riteniamo di citare anche ‘Spit Out the Bone’: veloce, caratterizzato da intramezzi groovy, esprime bene i contenuti lirici improntati su un mondo dove vige violenza e distruzione, dove ormai la lotta uomo-macchina sta arrivando all’epilogo finale. Sicuramente questi sono i capitoli pių riusciti. Perdersi nella valutazione track by track è un modus operandi che in sede di recensione paga poco, non lo trovo molto rispettoso nei confronti dei lettori che hanno ben più spessore critico per una valutazione personale, però nel caso in esame, e solo per i brani più invitanti, ci è parso corretto spendere qualche parola in quanto aiutava a caratterizzare i tratti peculiari di “Hardwired…To Self-Destruct”.

Venendo ai personaggi in questione. Poco da dire, Hetfield resta il numero uno. Il suo stile è ormai leggendario, sia vocale che ritmico, per non parlare dell’intensitā che riesce a trasmettere dal vivo. Già lo immaginiamo sul palco nel prossimo tour nell’intrattenere lo show tra una carica di riffing arcigni e questo suo approccio narrativo così ispirato. Il musicista continua ad essere la vera anima ed unico trait d’union tra la coscienza alcolica che mosse la band da “Kill ‘em All” a quello che oggi possiamo ascoltare su “Hardwired…To Self-Destruct”.
La sezione ritmica ‘ordinaria’ garantirà invece a Lars Ulrich di venirne fuori da vincitore garantendogli tutta la dinamica che gli resta e relegando un attimo in secondo piano quelle accellerate che lo hanno reso celebre fino a metà carriera. Robert Trujillo a parte (professionista preciso e dedicato), vogliamo spendere due parole sul lead guitarist. Kirk Hammett poteva e doveva dare molto di più! In “Hardwired…To Self-Destruct”, Hammett è esecutore di un lavoro onesto, di gusto, ma non all’altezza di quanto ci si debba aspettare dal chitarrista solista di una delle pių grandi metal band della Storia. A parte qualche spunto di pregio come su ‘Halo On Fire’ o su ‘Now That We’re Dead’ (prestazioni strepitose), l’ex allievo di Joe Satriani non porta cose straordinarie su altri pezzi, a livello di soli. Certo, il suo stile è caratteristico e ci piace, ma la percezione è che ci sia un po’ di riciclo delle vecchie idee e poco culo quadrato in sala prove, seduto là in otto anni a cercar di creare un qualcosa di più brillante. Lo riteniamo un po’ pochino.

Commercialmente parlando i Metallica sono, ancora una volta, andati oltre. Si pensi che per ogni canzone è stato realizzato un video, coinvolgendo in questi moltissimi fan che diventano così protagonisti assoluti del prodotto. Anche in questo caso, a voler essere provocatori: è forse un nuovo ‘strumento commerciale’ per scansare le potenziali accuse derivanti da mancanza di ispirazione? A mio parere no. L’idea è davvero super! Invece un giorno qualcuno mi spiegherà con che coraggio si possa realizzare una copertina del genere… ma forse il mio gusto non incontra quello dei quattro… d’altronde: de gustibus non est disputandum. 
I suoni sono invece straordinari (c’è qualcuno che per un attimo non ha pensato di trovarsi una sopresina come quella del fustino del dixan per rullante in “St. Anger”?). Il lavoro svolto a livello di mastering è stato sublime. Da anni i volumi non suonavano così bene. Tanto onore quindi al brillante lavoro di Dave Collins, comunque non ultimo arrivato se si pensa alle varie collaborazioni con artisti del calibro di Bad Religion, Alice Cooper, Ben Harper, No Doubt, Slipknot, Bruce Springsteen, giusto per citarne alcuni.

MetallicaMetallica… ancora una sospiro di sollievo o di rassegnazione? A voi ascoltatori, appassionati del metal ed amanti del gruppo, l’ardua sentenza.

Voto 65

Nicola Furlan

 

 

Una copertina di dubbio gusto, un doppio album di dodici canzoni della durata di quasi ottanta minuti (tanti, troppi), dodici videoclip pubblicati prima dell’uscita che sembrano partoriti in alcuni casi dalla mente di un teenager brufoloso che con le mani sudaticce si appresta ad esplorare per la prima volta un corpo femminile, di cui una preview del film Lords Of Chaos (pellicola che fa già discutere prima ancora di essere uscita), un tributo a Lemmy da far accapponare la pelle (il povero Ian Fraser Kilmister si starà rigirando nella tomba)…  Signore e Signori, dopo otto lunghi anni e un’agghiacciante collaborazione con Lou Reed, sono tornati i Metallica con “Hardwired… To Self-Destruct”!

Questa sarebbe stata l’introduzione (la recensione? In effetti poteva anche concludersi così) più probabile scritta sull’onda emotiva da un fan che ha smesso di comprare i loro album dall’uscita del Black Album, tradito dai propri beniamini più e più volte nel corso degli anni. Un fan che da tempo non ha più nemmeno voglia di ascoltare il nuovo disco di una band imbolsita e preda della propria opulenza. Che di chance ne ha concesse loro a bizzeffe, finendo puntualmente per ricevere in cambio solo delusioni. E che sa benissimo che là fuori ci sono centinaia di gruppi meritevoli anche solo di una frazione dell’attenzione che, nel bene o nel male, viene concessa ai Metallica. Band, schiacciate da dei vecchi dinosauri, che a fatica riescono a vendere qualche decina di copie del proprio disco e, se va bene, a riunire un centinaio di persone dal vivo, quando perfino la più scalcinata cover band di provincia dei Metallica riesce ad attirarne due/tre volte tante.
Ma d’altra parte è colpa degli acciaccati cavalieri di Frisco se buona parte del popolo metallico decide di investire tempo o denaro su di loro andando a ingrassare un portafogli già stracarico? Oppure tutti noi dovremmo analizzare il fenomeno con occhio più critico e farci un esame di coscienza?
E con il medesimo spirito critico dobbiamo approcciare e valutare “Hardwired…” per quello che realmente è e per la musica in esso contenuta.

Partiamo dalla lunghezza dell’album e dei singoli brani, problema già emerso con il precedente “Death Magnetc”, al quale una sforbiciata qua e là avrebbe senz’altro giovato. Cosa che non sarebbe un problema in sé, in quanto se guardassimo solo alla lunghezza dei brani oggi non potremmo bearci della magnificenza di vere e proprie opere d’arte come “Stargazer” dei Rainbow, “Trilogy” degli E.L.&P. e “Satan’s Fall” dei Mercyfull Fate oppure album come “Crimson” degli Edge Of Sanity. Rimanendo in ambito thrash si potrebbero citare “Dances Of Death” dei Mekong Delta o “Triocton” dei Deathrow… E la lista da fare sarebbe ancora lunghissima, per l’appunto. Quello che oggettivamente deve fare la differenza è solo la qualità della musica stessa e nel caso specifico dei Metallica si ha spesso la sensazione che tra le varie soluzioni e le tonnellate di riff sfornati da Hetfield (su “Hardwired…” ce ne sono diversi possenti e ispirati), se ne trovi quasi sempre alcune superflue, quasi buttate lì a far numero. Più in generale pare evidente che si potessero scartare alcuni brani (da pubblicare eventualmente come bonus track di edizioni deluxe, per esempio) e rilasciare l’album sotto forma di singolo CD. Come avrebbero dovuto fare al tempo i Guns’n’Roses con “Use Your Illusion” o come venne imposto ai Savatage di “Streets” (anche se in questo caso non sapremo mai chi avesse torto o ragione). Il contributo di brani come “Now That We’re Dead” (nomen omen?), “Dream No More”, “Here Comes Revenge” o “Murder One”, infatti, è davvero esiguo. Sebbene al loro interno abbiano alcune trovate interessanti, non sono sufficienti per giustificarne l’inserimento.  Di tutt’altro tenore, invece, “Hardwired”: semplice, diretta, cattiva. Molto bella “Halo Of Fire”, forte di uno dei ritornelli più oscuri e azzeccati che i Nostri abbiano composto da lungo tempo. Va detto che la seconda parte del brano perde un po’ la vibrante tensione che caratterizza la prima metà, ma tutto sommato è un peccato veniale. La palma di highlight dell’album, però, spetta a “Confusion” grazie a un Hetfield sugli scudi e “Spit Out The Bone”, un brano tirato come non ne sentivamo dai tempi di “Dyers Eve”, manca poco.
Stilisticamente i Nostri non hanno rinnegato la loro evoluzione musicale, tant’è che “Hardwired…” sembra quasi un excursus di tutta la loro carriera. Una sorta di compendio. E su questo album in particolare i Metallica hanno portato alla luce tutto quello che è il loro background, le loro influenze. Su “Atlas, Rise!”, per esempio, viene fuori prepotentemente la loro devozione alla N.W.O.B.H.M.. “Confusion” sembra quasi un tributo ai Diamond Head e “ManUNkind” è quanto di più simile ad una versione moderna dei Black Sabbath del periodo con Ozzy Osbourne.

Tenuto conto di tutti questi aspetti e al netto di tutte le varie considerazioni circa le scarse capacità di Ulrich, l’amore viscerale di Hammett per il wah wah e il modo a volte fastidioso di cantare di Hetfield, contrapposto alla sua indiscutibile qualità come ritmico (sempre uno dei migliori in circolazione), cosa rimane di questo “Hardwired…”? Ebbene è un disco che a tratti sa regalare delle emozioni e che quindi vale la pena ascoltare anche più di una volta prima di emettere una qualsiasi sentenza, ma che ha degli evidenti limiti. Perciò il consiglio è quello di andare a spendere i vostri soldi e supportare ben altro genere di realtà. Punto.

Voto 65

Orso Comellini

 

 

Se i Metallica non ci fossero, bisognerebbe inventarli. E questo, sia chiaro, decisamente al di là dei loro enormi meriti per quanto fatto per la crescita non solo del thrash, ma del metal tutto, nei gloriosi anni ’80. Bisognerebbe inventarli perché sono forse l’unica band, assieme agli Iron Maiden, che all’uscita di ogni nuovo album provoca un vero e proprio cataclisma tra gli appassionati, i quali, qualsiasi band o filone seguano in quel momento, non possono non fermarsi ad ascoltare la nuova proposta, a farsi la propria opinione e a discuterne, anche animatamente. E, diciamolo, il dibattito più è acceso, più diverte.
A otto anni da Death Magnetic, è ora arrivato il momento di Hardwired…To Self Destruct. Dodici pezzi per quasi ottanta minuti di musica, suddivisa in due cd: i quattro di San Francisco (anche) questa volta non si sono posti limiti in termini di quantità. Dodici pezzi che scottano, perché, qualsiasi cosa facciano i Metallica, da una parte schiere di fan gridano al miracolo alla minima accelerazione, dall’altra c’è chi, là fuori, non ha ancora superato lo shock di vedere James Hetfield con i capelli corti ed è pronto ad attaccarsi a qualsiasi pretesto per criticare. “Haters gonna hate”, suole dirsi in questi casi.
Poiché non stiamo presentando il nuovo disco di una band emergente e siamo convinti che chiunque stia leggendo queste righe sia già avanti con gli ascolti e si sia fatto un’opinione, evitiamo la classica guida all’ascolto che si conclude con un giudizio e, senza tanti preamboli, diciamo cosa rende “Hardwired…” un’uscita positiva, ma ben lontana, ahinoi, dalla perfezione. Innanzitutto, e molto semplicemente, buona parte dei nuovi pezzi sono BEI pezzi: si va dall’energia “cazzara” della title-track, ai richiami NWOBHM di Atlas, Rise!, dal groove semplice, ma convincente di Now That We’re Dead, al buon songwriting tout-court di Moth Into Flame. L’incedere quasi marziale di Dream No More – nostalgica alla radice con le sue liriche sui miti lovecraftiani – rimanda a pezzi storici quali Sad But True e Harvester Of Sorrow. Come poi non apprezzare l’indole quasi epica di Halo On Fire, che parte dolce, arrivando al ritornello in un crescendo di drammaticità e si stampa facilmente nella testa. E sempre rimanendo sugli elementi positivi dell’album, impossibile non menzionare la conclusiva Spit Out The Bone, che non appena si è diffusa tra gli ascoltatori è stata quasi all’unanimità eletta come il miglior pezzo targato Metallica da un quarto di secolo a questa parte…un attacco thrash portentoso, isterico e istintivo, come se tutta la rabbia di un tempo fosse ancora al suo posto, quella stessa energia che portava a pezzi conclusivi come Damage Inc. o Dyers Eve.
Accanto ai pezzi positivi, ce n’è poi un altro gruppo che convince solo in parte: Confusion è caratterizzata da un riffing deciso, specialmente nella parte introduttiva, ma poi si sviluppa in un modo un po’ banale, come ad esempio nella costruzione del refrain; ManUNkind ha un’intro di basso più che apprezzabile e un incedere sabbathiano particolare, ma ancora una volta tende a perdersi nel suo prosieguo. Il secondo cd continua e, tolto il colpo di coda strepitoso di Spit Out The Bone già menzionato e la più che sufficiente Here Comes Revenge (ma abbassiamolo il minutaggio!), sono sostanzialmente finite le luci dell’album: Am I Savage? è un pezzo malriuscito e noioso, Murder One, sincera e sentita nella sua esplicita dedica a Lemmy Kilmister, secondo chi scrive avrebbe dovuto essere letteralmente estrapolata dall’album e magari inserita in un ep celebrativo a parte, poiché tanto importante per il suo significato quanto inutile ai fini della completezza del disco, non aggiungendo nulla e allungando anzi inutilmente un album già niente affatto breve.

In sintesi, vediamo cosa abbiamo fra le mani. Una manciata consistente di canzoni valide, un’ottima produzione (finalmente!), riff e groove quanto basta, un Hetfield sempre istrionico e carismatico. Il rovescio della medaglia? La lunghezza dei pezzi: praticamente tutti i quelli più lunghi potevano essere ridotti, la band tende a procrastinare la chiusura senza motivo e questo sui mid-tempo (troppi, buona parte dell’album) è un errore che può costare caro. Dove Death Magnetic era un disco stracolmo di idee, spesso e volentieri poco focalizzate e mal sviluppate, questo Hardwired… gode di maggiore amalgama e messa a fuoco, sebbene sia impossibile non evidenziare una notevole ridondanza in termini di songwriting: come se i Metallica avessero inciso i pezzi prima del lavoro di rifinitura, ossia prima di eliminare tutte quelle parti non indispensabili o non cruciali per il risultato finale. Altro elemento negativo, l’evidente squilibrio qualitativo tra primo e secondo disco, che almeno inizialmente delude in modo netto. Infine, ancora una volta, un Trujillo ancora troppo in secondo piano, nonché parti di batteria e di chitarra solista poco incisive.
Detto questo, dopo un po’ di fatica causata da una seconda parte meno digeribile, l’album non fatica a rimanere nel lettore, anzi, tende a crescere con gli ascolti. A turno, i pezzi si stampano facilmente in testa e ci rimangono. Ed è proprio questo che gli fa guadagnare una piena sufficienza.

Ha poco senso mettere sullo stesso livello una nuova uscita dei Metallica con quelle degli altri nomi storici del thrash americano: è vero, l’origine è la stessa, ma è da un quarto di secolo che i 4 Cavalieri “giocano un campionato a parte” e soprattutto, non sono più semplicemente solo una thrash metal band. Lo capiranno i fan? Poco importa, chi li ha seguiti fino ad ora continuerà a farlo, chi li detesta dall’attacco di Enter Sandman in poi non cambierà opinione. L’unica certezza è che, comunque la pensiate, i Four Horsemen, anche solo per tutto il “rumore” che provocano, restano un’istituzione. Questa è stata un’occasione persa? Forse. Buono, ma non buonissimo. 

Voto 65

Vittorio Cafiero

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