Recensione: Hearts Of No Light

Di Gianluca Fontanesi - 8 Novembre 2019 - 0:10
Hearts Of No Light
Band: Schammasch
Etichetta:
Genere: Avantgarde 
Anno: 2019
Nazione:
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90

Il black metal può ancora esprimere un concetto? Può a fine 2019 essere ancora un genere in grado di mutare forma e raggiungere una pericolosità artistica senza per forza basarsi su un contorno di morte e distruzione? La scena europea è tutto tranne che morta: Svezia, Norvegia, Finlandia, Francia, Italia, Polonia, Russia, Grecia offrono scene di tutto rispetto e artisti in grado di mantenere la fiamma nera ben alimentata con uscite di tutto rispetto. Il fuoco d’artificio però a questo giro di boa viene dalla Svizzera: un paese che, dai Celtic Frost ai Coroner e via dicendo, ha sempre dato al metal non solo grandi band ma ventate di genialità necessare e di cruciale importanza per i generi di appartenenza. 

Gli Schammasch, fin dagli esordi, hanno sempre seguito una strada tutta loro e raggiunto con Triangle vette di qualità notevoli e in grado di aprire nuovi orizzonti. Contrariamente a quello che ci saremmo aspettati, ovvero una seconda parte dedicata a Maldoror, gli elvetici escono dal nulla con Hearts Of No Light, ovvero un album vero e proprio che riesce nel difficilissimo compito di appaiare, se non migliorare, la qualità dell’uscita precedente.

Cominciamo dall’inizio, cioè dal togliere quell’etichetta black in grado di falsare e fuorviare e iniziamo a parlare di avantgarde. Hearts Of No Light è un’opera difficilmente classificabile e che va a collocarsi fuori da ogni logica di mercato o di commercio. L’essere eterogeneo è alla base della sua ragione di esistere e non c’è nulla di non voluto o lasciato al caso. Ognuno dei nove brani riesce ad avere una sua dimensione e a prendere la direzione a lui più consona, e il risultato è strepitoso.

L’accoppiata iniziale Winds That Pierce The Silence ed Ego Sum Omega fulmina l’ascoltatore prima con un’intro dal crescendo magistrale e progressivo, poi con un teatro d’oscurità di altissimo livello. Voce rigorosamente in growl, dissonanze, arpeggi; gli Shammasch imbastiscono un tappeto sonoro potente ed ermetico. Si stacca preso e in maniera imprevedibile; dal post death si passa al black metal e ai tremolo, ai blast beat fulminanti e a un finale che è tutta psichedelia. E siamo solo all’inizio, benvenuti all’inferno.

A Bridge Ablaze stravolge tutte le carte in tavola e si sposta su un filone elettronico/atmosferico che strizza l’occhio agli Ulver più recenti e introspettivi; pur essendo solo un intermezzo di tre minuti scarsi, fa un figurone e riesce nell’intento di porre parecchi punti di domanda all’ascoltatore sulla direzione del brano successivo. Adam Qadmon nella mistica ebraica è l’uomo perfetto, la massima espressione della purezza e della bellezza. Ciò che creano gli Schammasch in Qadmon’s Heir è appunto il più degno degli eredi. Da un apparente tessuto melodico si passa a un riffing tipicamente norvegese sorretto da un growl lugubre e cavernoso; fanno capolino le clean vocals che, in questo frangente, sono claustrofobiche e disturbate. Verso la metà si stacca, e la lunga parte strumentale che segue è il parossismo: sembra di essere circondati da fantasmi e anime tormantate, e quando il tutto si spegne in maniera fulminea e rimane solo il piatto, il sentore che ci sia stata scavata l’anima rimane permanente.

Rays Like Razors, come la maggior parte dei brani dell’opera, è una divinità mutevole e bifronte. Prima e seconda parte si fondono creando un’accoppiata che va dal più furioso dei black/death ad atmosfere in questo caso tipicamente post e messianiche. I Burn Within You ha dalla sua una prima parte con un tessuto strumentale fatto di arpeggi ripetuti, note alte e alternanza tra growl e clean; a un certo punto si stacca in maniera drastica e, quando sembra si stia virando verso un complicatissimo sprechtgesang, si riprende in toni mistici e magniloquenti servendo un finale pazzesco, che se fosse stato ripreso dopo lo stacco avrebbe alzato ulteriormente un livello già altissimo.

I tre brani finali sono in grado di mandare al manicomio chiunque, Paradigm Of Beauty in particolar modo. Stilisticamente siamo agli antipodi degli Schammasch e ci collochiamo su quello che strumentalmente potremmo definire aor in una versione oscura e luciferina. Sembra di essere catapultati negli anni ’80 in versione sulfurea e il brano è assolutamente tanta roba. Fa lo stesso efetto di una Small Electric Space in Soulburner, di una Why? in Empath o di una Tannhäuser / Derivè in The Shape Of Punk To Come: brani fuori genere e fuori scala che presi singolarmente fanno una figura mentre parte di un tutto lo elevano a potenza. E non è finita qua. La catabasi è la discesa di una persona viva nell’ade, e il brano omonimo va a fare da contrappunto alla quasi solarità di Paradigm Of Beauty rivelandosi il più oscuro e brutale del lotto, con richiami al doom, chitarre laceranti e una sezione ritmica senza tregua. Le melodie verso il finale arrivano fugaci e inaspettate e si sfuma verso l’ultima traccia. Innermost, Lowermost Abyss, ormai senza ombra di dubbio, mescola ancora e artisticamente va in territori prima acustici poi ambient. Il brano dura un buon quarto d’ora ed è interamente strumentale. Si apre elettronicamente, e presto spunta il tema portante che viene ampliato sempre di più da un crescendo magistrale e immagnifico, quasi tribale. Sembra di passeggiare in Portogallo, nei vicoletti dove i piccoli locali ospitano gli artisti di fado, a braccetto con il Demonio. Gli ultimi cinque minuti sono totalmente ambient, con un volume e una stretta alla gola che si alza sempre di più per poi stopparsi improvvisamente. Chi conosce bene gli Shammasch sa che a questo punto ci dovrebbero essere quattro rintocchi, che puntualmente arrivano e calano il sipario.

L’8 novembre 2019, oltre che di Hideo Kojima, è il giorno degli Schammasch e di Hearts Of No Light; sembra quasi ci si sia messi d’accordo sul far uscire opere avulse dalle principali dinamiche di mercato e dagli stilemi preconfezionati. Qui la direzione artistica fa paura e soprattutto non ha paura; agli Schammasch non è mai importato nulla di far parte di una definizione precisa e ancora una volta lo dimostrano a livelli per moltissime band estreme inarrivabili. C’è tutto in questo disco e ci sono idee per discografie intere; gli svizzeri sono riusciti a catalizzare miliardi di influenze in 67 minuti e a farle funzionare creando un unicum che farà sicurmante parlare di sé a lungo nei piccoli circoli di amanti degli ibridi. C’è ancora voglia e c’è ancora il bisogno di fare arte a braccetto con la musica e questa gente è qui a ricordarcelo; troppo bravi per poter diventare famosi e troppo eclettici per poter acchiappare fan di uno o un altro genere, gli Schammasch vivono nel limbo e sono il limbo. Prescindere da loro però, per un amante di musica estrema che si rispetti, non è più un gusto ma un crimine. Disco dell’anno.

 

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