Recensione: High On Fire
Il quinto album in studio dei Sainted Sinners, intitolato “High On Fire”, si presenta come una solenne e potente celebrazione dell’Hard Rock classico. La band, forte di un ensemble di musicisti di primissimo piano come il chitarrista Frank Pané (Bonfire), il cantante Jack Meille (Tygers Of Pan Tang) e il tastierista Ernesto Ghezzi (Gotthard), riafferma con convinzione la sua missione: ricreare l’autentica “Essence of Rock’n’Roll” pescando a piene mani dalle glorie degli anni Settanta e Ottanta. Fin dai primi minuti di ascolto, l’album si distingue per la sua produzione eccezionale. Il sound è nitido, robusto e avvolgente, fornendo un palcoscenico perfetto per le performance virtuose di tutti i membri. Il vero faro sonoro di “High On Fire” è l’organo Hammond di Ernesto Ghezzi. Il suo contributo non è mai accessorio, ma agisce come una forza motrice che evoca costantemente lo spirito immortale di maestri come Jon Lord. I suoi fill e i solo arricchiscono l’atmosfera con escursioni groovy e a tratti prog, conferendo all’Hard Rock della band una densità rara. Contemporaneamente, la voce di Jack Meille mantiene un equilibrio perfetto tra aggressività graffiante e melodia pulita, adattandosi con disinvoltura alle diverse sfumature stilistiche dei brani. Quando i Sainted Sinners decidono di spingere il pedale dell’acceleratore, l’album raggiunge i suoi apici creativi, sprigionando un’energia contagiosa e senza tempo. L’apertura con “Crown of Thorns” è emblematica: dopo un’introduzione di carattere, il brano si trasforma in una cavalcata implacabile, caratterizzata da riff serrati e una sezione ritmica incalzante che stabilisce immediatamente lo standard dinamico. Similmente, “Sweet Sweet Addiction” è puro Hard Rock melodico distillato, con un ritornello che si imprime nella mente fin dal primo ascolto e incarna alla perfezione lo spirito ribelle del genere. Non meno efficace è “World’s On Fire”, un heavy rock groover in cui si percepiscono le influenze dei maestri del riff come i Van Halen, dimostrando la capacità della band di gestire un funk-rock potente ma alleggerito. Nonostante la maestria individuale dei musicisti, l’album non riesce a mantenere una costante ispirativa per tutta la tracklist, risultando in un ascolto a tratti disomogeneo. La parte centrale del disco è infatti popolata da una serie di mid-tempo che, pur essendo eseguiti con professionalità impeccabile e arrangiamenti lussuosi, faticano a emergere dal mare magnum dei cliché del Classic Rock. Brani come “Out of the Blue” o “Sunshine” sono solidi e piacevoli, ma risultano purtroppo interscambiabili e non lasciano un segno distintivo, un limite che la band aveva già mostrato in lavori precedenti. Manca in queste composizioni quella scintilla di originalità o quel hook decisivo che trasformerebbe un buon brano in un classico. Fortunatamente, “High On Fire” riserva momenti di autentica sorpresa che ne salvano il quadro generale. La traccia “Hide In The Dark” rappresenta un’interessante deviazione stilistica. Qui, la band osa con un arrangiamento più stratificato e teatrale, introducendo un groove che si spinge verso atmosfere Southern rock e persino elementi folk alla Jethro Tull. È un brano che, per la sua ricerca e la sua complessità, si distingue nettamente e dimostra la potenzialità creativa inespressa della formazione. Anche la power ballad “Lost in A Storm” introduce un mood più riflessivo e oscuro, con l’Hammond che crea un sottofondo quasi drammatico, confermando che la band eccelle quando si concede licenze stilistiche audaci. “High On Fire” è un album con una produzione di altissimo livello e un cuore che batte per il Classic Rock più autentico. È un’opera che farà la gioia degli appassionati delle sonorità degli anni Settanta e Ottanta, desiderosi di ascoltare musicisti di razza all’opera. L’energia dei brani più veloci e il contributo monumentale di Ernesto Ghezzi sono sufficienti a giustificare l’acquisto. Tuttavia, l’album non riesce a raggiungere lo status di capolavoro a causa di una scrittura non sempre incisiva nei mid-tempo. I Sainted Sinners onorano il passato con abilità, ma per raggiungere il vertice, dovranno iniettare maggiore imprevedibilità e incisività nelle loro composizioni future. Un album solido e ben prodotto che celebra il genere con grande competenza, pur peccando in originalità.

